Perché Meloni dice «tossica» | il manifesto

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Giorgia Meloni dice le cose con una tale sicumera che bisogna davvero concentrarsi per rendersi conto degli slalom efficacissimi che compie tra i pezzi di realtà che nomina e quelli che nega o copre o fa sparire, da abile prestigiatrice. Parlando recentemente alla Cisl e cambiando di volta in volta toni e linguaggi, ha tenuto insieme supposti successi del governo, record in tema di occupazione, promesse mantenute, tecnicismi (reskilling e upskilling), denatalità, attacchi alle banche, lemmi gramsciani (l’ottimismo della volontà) e l’invito (futurista?) a «guardare in alto, guardare oltre». Questo pastiche in cui i comunicatori della presidente sono ormai sempre più esperti è servito solo a presentare il gran finale: «Ricostruire la dinamica tra imprese e lavoro significa gettare le fondamenta di una nuova alleanza tra datori di lavoro e lavoratori, fondata sulla condivisione degli oneri e degli onori». Prefigurando la sua immagine di sindacato ideale, perfettamente incarnato dalla Cisl, la presidente del Consiglio ha dichiarato che è ora di «superare una volta per tutte quella tossica visione conflittuale che anche nel mondo del sindacato qualcuno si ostina ancora a sostenere».

Che questo governo abbia una certa ostilità nei confronti di tutto quello che si muove nella società generando dissenso è noto. Cos’è il disegno di legge sicurezza se non un gigantesco attacco frontale al conflitto sociale e alle forme attraverso cui classicamente si esprime? Ma definire «tossica» la visione di chi non ritiene pacificata o consociabile la relazione tra le imprese e il lavoro è un passo in più, questo sì un passo oltre. Meloni ha preso dal linguaggio comune una parola che è diventata di uso corrente per definire una relazione che si ammala, in cui una sostanza produce qualcosa di ingovernabile che porta alla ripetizione senza senso di una dinamica di potere e di sofferenza. Una parola che è transitata dal linguaggio della psicopatologia al linguaggio del quotidiano, esaurendo efficacemente ed esaustivamente tutto l’arco delle complicazioni che possono sorgere in un legame d’amore. Meloni se ne appropria e con un’immagine accosta il conflitto a una dinamica che intrappola le parti immobilizzandole in azioni perverse. Basta andare sul web per trovare migliaia di coach e psicologi che insegnano a riconoscere una relazione tossica dai suoi sintomi, e una persona tossica dalla capacità che ha di rovinare la vita di chi gli sta intorno. Dicono anche come guarire da tutto ciò, chiudendo ogni contatto e andando oltre. La presidente è riuscita ad accartocciare in una parola associata a un dolore personale impossibile da elaborare, la dinamica sociale portata avanti dall’intera storia dei movimenti. Non è un caso che elogiando il segretario uscente, Luigi Sbarra, Meloni abbia scelto di citare un passaggio in cui «Gigi» liquida il Novecento, un secolo caratterizzato da «pregiudizi, antagonismo e furore ideologico», anticaglie che non servono a chi sa fare il sindacato del futuro.

Visione tossica, furore, il conflitto sociale è ripetutamente ridotto all’eccesso e a uno stato di alterazione del senso di realtà e del limite. Quel «qualcuno» che se ne fa ancora interprete, anche nel sindacato è tutt’altro che un soggetto vago. Il riferimento è diretto è al segretario della Cgil, evocato tra le righe anche nel passaggio sulla «rivolta sociale». E infatti Landini, chiamato in causa, le ha risposto via stampa sminuendo l’aggettivo e provando a condividerlo con «tutti i lavoratori tossici». Nell’intervento di Meloni non c’è nessuna attenzione al linguaggio inclusivo, naturalmente: tutti i soggetti, compreso lei stessa, sono al maschile: lavoratori, operai, tecnici, professionisti, sindacalisti. Unica eccezione le «mamme lavoratrici». Anche tutto il corredo valoriale non ha incrinature: coraggio, rispetto, onore, tutta roba da galantuomini. Solo quando sceglie di duellare a distanza con il capo della Cgil Meloni plana sul linguaggio pop ed evoca il fantasma di un’aggressività senza ragioni, la stessa che in molti casi si rivela distruttiva nella dinamica tra i generi senza portare a niente di buono.

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Sui giornali in questi giorni sono in molti ad affannarsi a rimettere in fila lotte e democrazia, conflitti sociali e diritti, ma servirà del lavoro per raffreddare il pathos con cui Meloni – da presidente del Consiglio e non da pasionaria di un partito di destra – è riuscita a rappresentare la dialettica tra le parti sociali come nociva al «bene dei lavoratori» e della Nazione. Nel frattempo ha fatto capire bene cosa intende lei per sindacato.



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