Caso Cavallotti e retate senza colpevoli, innocenza calpestata

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Tommaso, vecchio ubriacone, era una calamità, quando compariva in piazza al rientro dalla cantina dove ogni pomeriggio svuotava una damigiana di vino cerasuolo. Invadeva qualsiasi compagnia, prendeva la parola e non gliela si toglieva più. Argomentava toscaneggiando. Alla fine domandava «hai capito?», con veemenza, su uno a caso. L’interlocutore, già brillo – se non ubriaco a sua volta, per l’impatto con i fiati da avvinazzato in accompagno a quelle farneticazioni urlate a pochi centimetri dalla sua faccia – pur a volerlo non aveva modo di ribattere, per quello che si rispondeva da sé, sempre con le stesse parole, «se hai capito o non hai capito, è così e basta, perché l’ho detto io». E tutti a convenirne. Si mettevano a discutere con un ubriaco? A farci lite? Ne avrebbero perso loro.

La Giustizia inquirente, quella delle Procure antimafia, non tutta per fortuna, mi ricorda Tommaso, ha ragione comunque e a prescindere, pur ad averla sparata più grossa di una mongolfiera. E, a opporle qualcosa, ti confonde. In più, rispetto al “nostro”, ha il prestigio che le deriva dal posto a cassetta e dalla toga che, nell’appesantire le spalle, conferisce una supponenza che, minimo, rende venti centimetri più alti – fa lievitare da terra, chissà? A provarci, magari si cammina sulle acque.

Mi è venuto in mente per aver letto la strabiliante interrogazione al ministro Nordio dell’onorevole Cafiero de Raho, tesa a indurre il Governo a un intervento presso il Consiglio d’Europa per impedire l’accoglimento di un ricorso di innocenti avverso l’abnormità di beni loro sequestrati, poi restituiti in rovina e senza alcuna possibilità risarcitoria – per evitare la «messa in discussione del pilastro fondamentale del contrasto delle mafie in Italia ed in Europa» , questa la motivazione.

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L’innocente, cioè, dovrebbe soggiacere chioccia al gallo pur di non inceppare un sistema da Inquisizione, pur di non guastare i risultati della lotta alla mafia, pur di conservare le leggi coercitive con cui essa è affrontata, con buona pace dello Stato di diritto nella nazione che si picca essere la patria del diritto, con buona pace di norme con un grosso tanfo d’incostituzionalità e contravvenendo alla presunzione di non colpevolezza.

Nulla dovrebbe perciò contare, dice de Raho, essere estranei ai delitti che hanno comportato il provvedimento sui beni, perché c’è un’esigenza superiore e perché, comunque, i processi alla persona e il sequestro/ confisca marciano su due binari diversi, e i proprietari, pur non essendo né mafiosi né collusi in alcun modo, se la devono ingoiare. Mah! E sarebbe giustizia? Ed è normale che un ex magistrato di prestigio intralci così il cammino della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, massacri il diritto e calpesti l’innocenza conclamata? Il caso in questione è quello di Pietro Cavallotti. Che è siciliano come la dottoressa Saguto, ben nota alle cronache per le vicende del suo ufficio palermitano e per la condanna definitiva che ha sul groppone.

Eppure Saguto nulla ha insegnato, se de Raho insiste senza tener in conto che la garanzia degli innocenti vale molto più dei colpevoli che la fanno franca. E qui ecco spuntarmi Davigo, ma è un’altra storia, da riderci e da piangerci, di uno che non l’ha fatta franca.

Quella norma è una vergogna nazionale che neanche nell’Argentina dei tempi bui. Con quale coscienza s’irrompe così nelle vite di persone perbene e le si manda in frantumi, etichettandole mafiose solo in base a vaghi e fumosi indizi, a congetture più o meno strampalate, chiacchiere e sentito dire, malevolenza magari, o inezie come bere un caffè con uno in odore di mafia, e tuttavia libero di circolare.

De Raho da queste parti lo conosciamo bene. Fu Procuratore Antimafia di Reggio Calabria. È il Procuratore che consigliava ai reggini onesti di non uscire di casa, come faceva lui che nemmeno andava a giocare a tennis per non offrirsi alla possibilità d’impattare in personaggi equivoci. Non credo occorrano commenti.

Gli ha fatto eco Chiara Colosimo, Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, quel carrozzone inutile, il contentino ai bidonati della politica. Si è schierata a favore dell’abominio, dichiarando «… il fatto che, prima di una condanna, tu possa togliere dei beni a qualcuno è visto da pazzi, invece è la nostra più grande risorsa e capacità di fare antimafia», testuale, nella sala Matteotti alla Camera. Ha poi obiettato alle legittime lamentale sull’ingiustizia subita esternate da Massimo Nicita – caso simile a quello Cavallotti – che basta fare richiesta di essere audito dalla Commissione Nazionale Antimafia e chiarire lì la propria posizione. Nicita la farà. E gli toccherà la sorte di Cavallotti, che ancora aspetta di essere convocato dall’allora Presidente Rosy Bindi.

Quindi, innocenti fatevene una ragione se vi hanno rovinato, questo è, lo diciamo noi ed è così, come il nostro ubriacone insomma. Senza peraltro capire che questo, assieme a tant’altro, ha contribuito a una fiducia rasoterra della Giustizia, mai così bassa.

Tutto questo, mentre il Sistema è un colabrodo, e la lotta antimafia peggio, se, tanto per fare un esempio, in Calabria il contrasto alla ’ ndrangheta ha portato a un’innocenza maltrattata – gente che si è rivelata innocente alla fine dei tre gradi di giudizio – pari al 57%. Tutto questo, mentre l’Italia esalta certi combattenti dell’antimafia quasi fossero i nuovi Falcone e Borsellino, senza uno, dico uno, che si prenda la briga di andare a controllare la reale consistenza delle operazioni di polizia strombazzate a pieni polmoni e poi, al quaglio, risultate ben misera cosa, una falcidia di poveri cristi immolati alla vanità, e alle carriere, che avanzano e svettano, perché importa il clamore in uscita e non il bluff di ritorno.

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Chiudo con una nota personale: un mio amico medico riconosce la malattia che ha condotto alla morte solo guardando una fotografia del volto prima del trapasso: studio delle facies, si chiama in medicina. Ci azzecca quasi sempre. Beh, certuni guardiamoli in faccia da vivi. Non occorre il dono del mio amico per accorgersi che non c’è automatismo tra carriera e risultati in quest’Italia che troppo cammina all’indietro come il cordaio nell’intrecciare le corde.

Me ne resi conto alla presentazione di un mio romanzo. Tra i relatori, un importante magistrato dell’antimafia. “Houston, abbiamo un problema, X è un cretino!”, fu il commento del giornalista che dirigeva il dibattito, esternato in una telefonata a un amico giudice di quelli bravi. Scrivo X perché non venga individuato e io non mi buschi una querela. So che non è facile identificarlo, non è che quella dei magistrati sia un categoria con meno cretini di altre, è nella media, però può fare danni più di chiunque, e alcuni sono talmente cretini da sentirsi gli anticipatori, in terra, del giudizio divino, un supporto al Padreterno insomma, presumono di sedere, se non alla Sua destra, nel posto immediatamente dopo.



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