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Nei dati Istat di dicembre 2024 il mercato del lavoro comincia a fare i conti con il rallentamento della crescita. L’analisi di Claudio Negro della Fondazione Kuliscioff

 

L’occupazione cala pochissimo rispetto a novembre (-4.000 unità) ma cala per il secondo mese consecutivo, pur rimanendo a livello di record storico (62,3%). Dal punto di vista tendenziale la crescita rispetto a 12 mesi fa (+274.000 unità, +1,2%) è notevole, ma su base trimestrale rallenta in modo evidente (+0,1).

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Un altro segnale di rallentamento del mercato del lavoro è costituito dalla dinamica disoccupati -inattivi: i secondi diminuiscono ma aumentano contestualmente i disoccupati in misura quasi uguale; gli inattivi che hanno scelto di rientrare nel mercato del lavoro hanno trovato le porte chiuse! Un altro segnale di stagnazione viene dalla composizione del dato degli occupati: nella fascia tra 16 e 34 anni diminuisco, rispetto a novembre, del 3,6%, mentre aumentano del 4,2% gli inattivi. In tutte le altre fasce d’età l’occupazione sale, e in quella 50-64 anno scende significativamente (4,2%) anche il numero degli inattivi. Conclusione: l’occupazione si consolida nelle fasce meno giovani e marginalizza i giovani in modo crescente.

Del resto l’incremento dell’occupazione non produce una corrispondente crescita economica: le ore lavorate per addetto diminuiscono, come fanno ormai dal 1° trim. 2023, e con esse la produttività, nell’industria come nei servizi. Diminuiscono gli investimenti privati (-1,1% nel IV trim., ma già nel III° erano scesi del 9,9%). La produzione industriale su base trimestrale perde 0,4 punti.

Salgono invece le retribuzioni, ma soltanto come effetto della ripresa della contrattazione nazionale dei CCNL. Alla fine di dicembre risultavano rinnovati contratti per il 49% dei lavoratori dipendenti, prevalentemente del comparto privato, mentre sono ancora in attesa di rinnovo soprattutto i dipendenti del Comparto Pubblico; mediamente le retribuzioni orarie sono aumentate del 3,1% in termini tendenziali, e in termini congiunturali dello 0,1%. Punte superiori al 6% in termini tendenziali per il CCNL metalmeccanici e al 5% per alimentaristi, a conferma della centralità per l’Italia del comparto manifatturiero. Tuttavia i salari non hanno ancora recuperato la flessione verificatasi con la crisi internazionale del 2008. Relativamente in miglioramento il dato della CIG: dopo le punte di settembre e ottobre a novembre e dicembre le ore autorizzate sono significativamente diminuite, ma restano nella media dell’anno senza migliorare.

In sostanza, nonostante le prestazioni entusiasmanti degli anni post Covid, i dati raccontano una situazione ben lontana dal miracolo economico di cui parla il Governo: a stento sono stati nuovamente raggiunti i livelli pre-Covid, con l’eccezione del tasso di occupazione che però non si è scollato dalle ultime posizioni della UE né per numeri, né per retribuzioni, né per produttività. E adesso cominciano ad osservarsi, come prevedibile, i primi segnali di rallentamento della crescita. Vedremo come si orienterà l’economia globale, ma non c’è nessuna indicazione di una nuova crescita che possa trainare un balzo occupazionale.

Per ora le indicazioni che abbiamo in proposito non lo prevedono. L’Osservatorio Excelsior (Ministero del Lavoro + Unioncamere) ci dice che a Gennaio le aziende hanno programmato quasi 500.000 assunzioni, ma la metà sono andate deserte (come, del resto, abitualmente). E tra i profili che hanno avuto meno risposte non ci sono solo profili di altissima professionalità ma anche più semplici, quali fonditori, saldatori, manutentori.

Per cui assistiamo al fenomeno di una crescita forte della domanda di lavoro che resta in gran parte inevasa, mentre l’offerta non riesce ad incontrarsi con la domanda per problemi relativi sia ai profili professionali sia alla mancanza di strumenti di politiche del lavoro che rendano meno difficile l’incontro tra domanda e offerta, anche intervenendo sulla formazione dei lavoratori, ovviando alle inadeguatezze dei percorsi scolastici.

Se non ci saranno interventi seri in merito l’Italia rischia di trascinarsi per il futuro una quota pari più o meno al 30% della popolazione adulta che non produce reddito e che andrà mantenuta a carico di chi lavora: ipotesi questa ipotizzabile in un Paese ad alte retribuzioni, ma non nel nostro dove, alla faccia della teoria economica classica, neanche la scarsità di offerta di lavoro fa lievitare i salari.

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