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Sono ore di attesa, e di preoccupazione, intorno a Gaza, al possibile inizio reale al Cairo dei negoziati sulla seconda fase del cessate il fuoco tra Israele e Hamas, al piano egiziano per la sua ricostruzione della Striscia – che non verrà più annunciato il 27 febbraio al Cairo, la nuova data del summit arabo è ancora da stabilire (slitta a venerdì 21 febbraio anche quello a Riyadh) -, e a quello di Donald Trump finalizzato a cacciare via la popolazione palestinese da Gaza che piace molto a Benyamin Netanyahu. Sullo sfondo ci sono le indiscrezioni, diffuse proprio da fonti israeliane, sulle manovre del primo ministro per silurare il prolungamento della tregua e riprendere l’attacco a Gaza al termine della prima fase dell’accordo con Hamas, con il consenso dell’Amministrazione Usa. Le dichiarazioni rilasciate domenica a Gerusalemme, al termine dell’incontro che Netanyahu ha avuto con il Segretario di stato Marco Rubio, hanno evidenziato una forte sintonia tra Usa e Israele, anche sulla linea da tenere con l’Iran.
Ieri sera si è appreso dalla tv pubblica israeliana Kan, che Hamas consegnerà questo giovedì i corpi di quattro ostaggi morti, nel 33esimo giorno del cessate il fuoco come prevedono le intese. Sabato invece verranno rilasciati tre ostaggi vivi – Israele insiste su sei – in cambio del rilascio di un numero non ancora noto di prigionieri palestinesi. La tregua però resta fragile e su di essa incombe la ripresa dell’offensiva militare israeliana sebbene decine di ostaggi vivi e deceduti siano ancora a Gaza. Il ministro di ultradestra Bezalel Smotrich esorta ad attuare al più presto la soluzione di Trump per Gaza e alla riunione del gabinetto di sicurezza ieri sera ha proposto un suo piano: se Hamas non restituirà subito tutti gli ostaggi Israele occuperà l’intera Striscia; niente acqua, elettricità e carburante; l’intera popolazione di Gaza sarà trasferita ad al Mawasi e da lì l’esercito la spingerà verso altri paesi. Ieri, a 500 giorni dal 7 ottobre 2023, le famiglie dei sequestrati e centinaia di persone hanno tenuto raduni a Gerusalemme, Tel Aviv e altre città e osservato un digiuno di solidarietà. L’iniziativa non è stata unitaria. Il Forum delle Famiglie insiste per fare pressioni affinché il governo rinunci alla guerra e favorisca il ritorno di tutti gli ostaggi. Il movimento Tikva invece è più vicino alla gestione «muscolare» di Netanyahu.
In queste ore è centrale anche il Libano del sud. L’esercito israeliano ha confermato che le sue truppe oggi non usciranno completamente dal paese dei cedri come prevede l’accordo di tregua con Hezbollah. Invece continueranno l’occupazione rimanendo in cinque posizioni strategiche. Di fatto Israele ha creato una zona cuscinetto a ridosso del confine, con il via libera di Washington. La scadenza originale per il ritiro era a fine gennaio, ma Israele e Libano hanno concordato di estenderla al 18 febbraio. Le cinque postazioni israeliane sono già state rinforzate. Si trovano su una collina vicino a Labbouneh, sulla cima del Jabal Balat e su tre colline in zone disabitate (a causa dei pesanti bombardamenti di artiglieria e aerei israeliani andati avanti per mesi). Il 2 marzo, si è appreso, gli sfollati israeliani inizieranno ufficialmente a fare ritorno alle loro case nei pressi del confine, non pochi l’hanno già fatto in questi ultimi due mesi.
La mancata fine dell’occupazione israeliana rischia di innescare una catastrofe. Migliaia di famiglie libanesi intendono tornare alle loro case e non sono spinte a farlo soltanto, come si scrive, da Hezbollah. Lo scorso 27 gennaio migliaia di civili provarono a entrare nei villaggi ancora occupati dall’esercito israeliano che aprì il fuoco uccidendo più di 20 persone. Due giorni fa una donna è stata uccisa e altre persone sono rimaste ferite quando i soldati israeliani hanno aperto il fuoco su sfollati diretti al villaggio di Houla. Il leader di Hezbollah Naim Qassem ripete che Israele «deve ritirarsi da tutto il territorio libanese che ha occupato il 18 febbraio. Non ci possono essere scuse, cinque postazioni e pretesti vari. Questo è l’accordo». Qassem vuole che lo Stato libanese «si faccia sentire». Parole che cadono in un momento di grande tensione in Libano dopo che le autorità, probabilmente per decisione del neopresidente filo Usa, Joseph Aoun, hanno revocato l’autorizzazione a un volo da Teheran a Beirut. Un passo conseguenza della minaccia di Israele di bloccare con la forza (si è ipotizzato anche il bombardamento dell’aeroporto di Beirut) di presunti trasferimenti di fondi iraniani per Hezbollah con voli civili. «Dov’è la sovranità nazionale? Stiamo attuando le richieste dell’occupazione», ha protestato Qassem. Israele peraltro continua a lanciare attacchi in Libano nonostante la tregua. Nei giorni scorsi militanti di Hezbollah sono stati uccisi da un raid aereo a Jarjouh. Ieri un drone ha colpito a morte Muhammad Shahin che Israele ha descritto come un leader militare di Hamas in Libano.
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