Nel marzo 1983 Mario Di Giovanni fu aggredito e lasciato agonizzante per ore, all’istituto salesiano di Fossano. I responsabili cercarono anche di dargli fuoco, poi confessarono: «Ci ha accusato di un furto, ce l’aveva con noi»
Due marzo 1983: gli ignoti membri del sodalizio criminale Ludwig, una duo di ispirazione neonazista dedito alla missione di ripulire il mondo dagli impuri — ragazzi tossicodipendenti, prostitute, omosessuali tra i loro obiettivi prediletti — rivendicarono il settimo capro espiatorio: un religioso, padre Armando Bison, parroco a Trento, colpito a martellate in testa fino a spaccargliela. In cronaca, legata alla notizia, si leggeva di un altro agguato a un laico che insegnava in un istituto religioso. Quasi a suggerire, se non la stessa mano, un possibile collegamento nel movente tra le due azioni. Si trattava di un professore presso l’istituto salesiano di Fossano, in provincia di Cuneo: Mario Di Giovanni.
Docente di meccanica e assistente dei ragazzi in alcune delle ore di ricreazione, Di Giovanni era nato in provincia di Caserta nel 1941 ma si era trasferito, fin dall’infanzia, a San Mauro Torinese. Aspirava a diventare sacerdote, ma, a causa di una malattia reumatica, dovette cambiare strada, consacrandosi a Dio come Salesiano Coadiutore. Quando venne trovato esanime, nelle prime ore del mattino, da due colleghi che avevano appena parcheggiato le loro automobili in cortile, era lampante fosse stato ucciso. I carabinieri si precipitarono nell’istituto Maria Ausiliatrice di Fossano e presero a indagare. In quell’anno scolastico erano iscritti più di duecento ragazzi, le circostanze dell’aggressione facevano pensare a qualcuno che avesse accesso agli spazi della scuola anche fuori dagli orari delle lezioni: magari uno dei cinquanta studenti fuorisede che vivevano nel convitto. Le forze dell’ordine si fecero consegnare l’elenco e iniziarono a sentirli, uno ad uno. Intanto, si raccoglievano particolari sulla dinamica del delitto e il professor Roà, che si occupò dell’autopsia, delineò uno scenario terribile: il docente era stato ammazzato a martellate in testa ma non era morto subito, era stato lasciato agonizzante per molto tempo, forse qualche ora. Dopodiché l’assassino aveva cercato di renderlo irriconoscibile dando fuoco alla sua giacca, cosparsa di liquido infiammabile e gettata sul viso. Chi aveva ucciso non aveva fretta di fuggire e non aveva rubato alcunché. Nella stessa giornata, aprendo un armadietto, venne trovato un asciugamano insanguinato.
Il personale dell’istituto, sgomento, collaborò al lavoro degli inquirenti e, il giorno successivo il delitto, vennero prelevati dalle loro abitazioni due studenti minorenni, tra lo sconcerto dei genitori, convinti tuttavia di doverli accompagnare solamente a testimoniare. Nella notte, però, il sedicenne L. e il diciassettenne M., l’uno di un paesino vicino ad Alba, l’altro proveniente da un altro piccolo comune non lontano da Cuneo, confessarono il delitto. Erano stati loro a uccidere Mario Di Giovanni. Lo avevano fatto «per chiudere i conti» con lui, affermarono di fronte al magistrato, il dottor Campisi, che non riusciva a darsi ragione. Un omicidio premeditato: una volta deciso di passare all’azione, uno dei due ragazzi — molto amici tra loro e chiusi nel loro rapporto, rispetto al resto dell’istituto — si era incaricato di avvisare il professore, ancora impegnato in aula a preparare il lavoro per il giorno successivo, che il suo compagno di classe si era sentito male e che fosse necessario soccorrerlo nel cortile di fronte al laboratorio. L’insegnante si era ribellato all’aggressione, condotta dal complice con un martello, ed era riuscito a divincolarsi. Tempo di qualche passo di corsa ed era stato nuovamente raggiunto, placcato e ucciso con ulteriori colpi in testa. I due si erano poi affrettati a tornare in camera per farsi trovare presenti all’appello delle ventuno. Una volta atteso che tutti dormissero, erano tornati in cortile per trascinare il corpo esanime del Di Giovanni accanto alla legnaia e tentare, inutilmente, di dargli fuoco. Per ripulirsi dal sangue avevano spaccato il vetro della porta che dava accesso al bagno ma uno dei due, L., si era ferito alla mano. Per tamponare il taglio aveva usato un asciugamano che poi aveva nascosto nel suo armadietto.
Duemila persone si presentarono al funerale nel duomo di Fossano. A portare la bara, i compagni di classe dei due assassini. A celebrare la funzione, l’allora vescovo Severino Poletto, poi nominato cardinale da papa Wojtyla: «Credo di esprimere l’eco di tutta la città, che si è fermata attonita e sgomenta: come è possibile arrivare a un simile disprezzo della vita umana? Di chi è la colpa?» Le voci dei ragazzi e pure di tanti ex frequentatori del convitto, raccolte dopo le esequie, raccontavano in effetti una storia molto diversa da quella vissuta nella mente degli omicidi: il confratello laico Mario Di Giovanni non era un tiranno né un violento, anzi. Era semplicemente un insegnante di valore che esigeva disciplina. Eppure, i due ragazzi insistevano: «Ce l’aveva con noi. Tutte le cose che capitavano, le addebitava a noi. A noi non piaceva giocare a calcio né fare atletica, ce ne stavamo per conto nostro. Chiedevamo se era possibile fare delle assemblee per parlare dei nostri problemi ma ci veniva risposto di no, venivamo puniti perché non partecipavamo alle attività come gli altri».
Un movente, quello della vendetta, che non trovò alcun riscontro neanche al processo, durante il quale uno degli imputati citò un episodio che avrebbe scatenato il progetto: Di Giovanni, secondo uno dei due assassini, aveva accusato i due giovani di aver fatto sparire una squadra di plastica da disegno e li aveva invitati a riparare il danno o, secondo un’altra versione, a prepararsi alla sua proposta di espulsione dall’istituto, perché recidivi. «L’episodio del furto della squadretta è stato un altro elemento», aggiunse, per poi spiazzare l’uditorio: «Il prof, però, aveva anche fatto delle proposte strane, omosessuali, sia a me sia al mio compagno. Così decidemmo di ucciderlo». Il presidente del tribunale, sconcertato da quel movente buttato lì quasi con noncuranza, chiese all’imputato se fosse sicuro di quanto stesse affermando: «Mah, non so, può anche essere che abbiamo frainteso», fu la risposta ancor meno concepibile.
I responsabili della insensata fine di Mario Di Giovanni che, morendo, aveva chiesto perché lo stessero uccidendo «e poi aveva iniziato a invocare la Madonna», ricordò l’altro ragazzo alla sbarra, vennero condannati a nove anni e sei mesi. M. incontrò il suo destino nel 1989 a Chieri. Curvò con la sua moto e si fracassò contro un furgone.
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