Così gli Usa colonizzano il calcio europeo

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Il piano degli Stati Uniti per egemonizzare il calcio europeo prosegue, e l’ultimo obiettivo in questo percorso è stato rivelato martedì dall’Independent. La UEFA sta negoziando uno storico accordo con Relevent Sports Group, noto anche con l’acronimo RSG, per i diritti organizzativi della Champions League a partire dal 2027. Una notizia che all’apparenza potrebbe sembrare marginale ma nasconde in realtà una rivoluzione negli equilibri del calcio internazionale: da circa trent’anni la massima competizione europea per club si regge su una partnership tra la UEFA e la società svizzera TEAM Marketing, grazie alla quale il torneo si è affermato come il principale evento sportivo al mondo.

Per fare un raffronto, negli scorsi giorni negli Stati Uniti si è tenuto il Super Bowl, cioè la finale del campionato di football e l’evento sportivo più seguito del Paese, che ha raggiunto la quota di oltre 135 milioni di spettatori. La finale della Champions League del 2024 è stata seguita da circa 400 milioni di persone, facendone un evento di gran lunga più influente a livello globale. Ecco perché RSG vuole metterci le mani sopra: stiamo parlando di una delle più importanti società d’intrattenimento sportivo al mondo, il cui proprietario – Stephen M. Ross – possiede anche la squadra di football dei Miami Dolphins. RSG organizza già un importante torneo estivo di calcio negli USA, l’International Champions Cup.

Secondo l’Independent, questo accordo con la UEFA comprenderebbe in prospettiva l’organizzazione della finale di Champions League proprio negli Stati Uniti entro il 2033. Sarebbe la prima volta che la partita più importante della stagione sportiva europea si disputa in un altro continente. Ma d’altronde è una possibilità che già da qualche anno viene caldeggiata dai dirigenti sportivi del Vecchio Continente, interessati a seguire proprio l’esempio degli sport americani, che occasionalmente organizzano partite in Europa.

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I Mondiali americani

Uno dei promotori della prima ora di questo progetto è Javier Tebas, il presidente della Liga, che da tempo parla di giocare alcune partite del campionato spagnolo all’estero, in particolare in Nord America. Lo scorso aprile ha infatti annunciato un nuovo passo avanti su questa linea, e si presume che dalla prossima stagione la Liga possa sbarcare negli USA. Una decisione presa subito dopo la liberalizzazione approvata dalla FIFA, che fino a un anno fa vietava di disputare incontri dei campionati nazionali all’estero.

In questo discorso rientrano anche gli interessi del capo della FIFA Gianni Infantino negli investimenti in America, ribaditi in maniera molto esplicita in questi mesi tramite i numerosi scambi di apprezzamenti tra lui e il Presidente americano Trump. La prossima estate gli Stati Uniti ospiteranno la prima edizione del Mondiale per Club, torneo fortemente voluto da Infantino proprio per provare a insidiare lo strapotere mediatico della Champions League, organizzata dalla UEFA. Poi, nell’estate del 2026 gli USA saranno la sede principale (assieme a Canada e Messico) dei Mondiali per squadre nazionali, e nel 2028 a Los Angeles approderanno i Giochi Olimpici, che comprendono anche un torneo di calcio supervisionato proprio dalla FIFA.

Il calcio si sta spostando sempre più verso Ovest, se non altro a livello economico. Basta dare un’occhiata alle principali leghe europee per rendersi conto del crescente numero di proprietà americane: nella Premier League inglese e nella Serie A italiana sono quasi la metà delle partecipanti al campionato, più diverse altre presenti nelle serie minori. Sono americane il Liverpool, l’Arsenal, il Chelsea, il Manchester United, l’Inter, il Milan e l’Olympique Marsiglia, solo citarne alcune. Il pubblico del calcio europeo è in costante crescita negli Stati Uniti, e quindi investire nei club del Vecchio Continente è un modo per entrare nel settore sportivo in maggiore espansione in questi anni. Un percorso che è però bi-direzionale, perché gli stessi club europei scelgono poi di acquistare giocatori statunitensi (o, più raramente, canadesi) tanto per ragioni tecniche quanto di marketing.

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