Covid, cinque anni fa il paziente zero a Codogno: che fine hanno fatto i luoghi simbolo della pandemia e cosa è cambiato da allora

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di
Sara Bettoni

Il virus arrivò a Codogno il 21 febbraio 2020. Da allora sono passati cinque anni, 4 milioni e 400 mila contagiati e 50 mila morti. Ora al Sacco il restyling con i fondi del Pnrr, al Niguarda aumentati i posti letto per le malattie infettive

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Cinque anni fa, attorno alle 2 e mezzo di pomeriggio, squillava il cellulare di Massimo Lombardo, alla guida degli ospedali lodigiani. La telefonata arrivava da Codogno. «Abbiamo il primo caso di Covid, pare. Non è un viaggiatore», la sintesi. Dopo varie ondate epidemiche, un paio di lockdown, 4 milioni e 400 mila contagiati ufficiali (impossibile contare i «sommersi») e quasi 50 mila morti, cosa ha imparato la sanità regionale da quell’esperienza? «Una delle eredità positive è la telemedicina» secondo Lombardo, che oggi è direttore generale dell’Agenzia per l’emergenza urgenza. «Progetti nati in modo spontaneo durante quei mesi oggi sono consolidati». Visite mediche a distanza, quindi, grazie alla tecnologia. Un modo per evitare gli spostamenti allora ritenuti «rischiosi», oggi invece solo considerati uno spreco di tempo. «Ma tutti noi abbiamo anche imparato a isolare un reparto — continua il dg —. A Brescia, agli Ospedali Civili, in poco tempo è stato ristrutturato un padiglione con sistemi di ventilazione “forzata” e la possibilità di monitorare ogni letto».

All’ospedale Sacco, periferia Ovest di Milano, gli operai si danno da fare per un grande restyling con i fondi del Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza, altro lascito della pandemia. I cantieri riguardano ben 13 padiglioni, per un costo totale di 110 milioni di euro. «Tra un mesetto dovrebbe essere finito il Pronto soccorso infettivologico — dice Andrea Gori, primario di Malattie infettive —. E dal 1° ottobre sarà terminata l’area di biocontenimento, il laboratorio è già pronto e attivo». Al di là delle strutture, ricorda però che in questi anni si è lavorato per rafforzare policy e protocolli. È stata creata una Rete infettivologica lombarda che settimanalmente si confronta con i tecnici della Regione e in particolare con l’Unità di Prevenzione. «A questo si è associato un network di laboratori — aggiunge Gori —, dando così vita a una nuova triade».




















































Intensificata anche la sorveglianza infettivologica. Nel concreto, ai pazienti che arrivano nei pronto soccorso lombardi con sintomi respiratori (tosse, raffreddore) viene fatto un tampone. Da quelle analisi, ogni sette giorni viene aggiornata la mappa dei virus e dei batteri in circolazione. Gli stessi test vengono eseguiti dai medici-sentinella sul territorio. «Sulla base di questi risultati possiamo prendere provvedimenti — spiega l’infettivologo —. Per esempio, abbiamo subito notato una maggior diffusione del mycoplasma, batterio che può provocare la polmonite». Parallelamente, con il progetto Microbio, è stata attivata una rete di Microbiologie.

Secondo Francesco Blasi, primario di Pneumologia del Policlinico, «abbiamo imparato soprattutto a lavorare assieme. Come organizzazione ospedaliera invece ci siamo allenati a essere più flessibili nella gestione dei posti letto». Sono invece molto meno diffuse alcune «buone pratiche» che erano quotidianità durante la pandemia: l’uso della mascherina, l’abitudine a lavarsi frequentemente le mani, l’adesione alle vaccinazioni.

Al Niguarda i letti per le Malattie infettive sono passati da 20 a 29, «ma non sono aumentati i posti in generale negli ospedali — lamenta il primario Massimo Puoti —. E rimane la difficoltà a dimettere i pazienti nelle strutture intermedie, così da liberare letti per i malati più gravi. I sistemi di sorveglianza ci aiutano ad avere un quadro immediato della situazione, oggi non saremmo più presi alle spalle dalla comparsa del virus. Ma resta il problema delle risorse: è una questione di fondi, di strutture, di personale». Personale che è «molto stanco — come ha riconosciuto due giorni fa l’assessore al Welfare Guido Bertolaso — eredità della tensione, delle preoccupazioni e della fatica di quell’anno e della campagna di vaccinazione». Medici e infermieri non più eroi, ma a volte addirittura bersaglio della rabbia dei pazienti.

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