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Giovani e carcere, depredare l’Ucraina, l’Europa e Big Tech, la pandemia rimossa, orrori houthi |
I leader delle Big Tech alla cerimonia di insediamento di Donald Trump (foto Julia Demaree Nikhinson/Afp)
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di
Luca Angelini
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per le imprese
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Minori in carcere e università A Bologna c’era un Polo universitario nel carcere della Dozza, ma negli ultimi mesi le strutture sono state praticamente smantellate. In compenso sono in arrivo una sessantina di ragazzi stranieri violenti dagli istituti minorili di tutta Italia. Alessandro prova a capire che sta succedendo, e non solo a Bologna.
Bottino di guerra Dietro gli insulti di Donald Trump al presidente ucraino Volodymyr Zelensky si intravede un’America, spiega Massimo Nava, non più alleato leale, ma predatore coloniale.
Grazie, ma no grazie I big di Big tech si sono prontamente inchinati a Donald II. Un motivo in più, per l’Europa, per non inchinarsi a Big Tech. A dirlo sono un’esperta di tecnologia e un premio Nobel per l’Economia.
Pandemia dimenticata A cinque anni di distanza, sulla tragedia del Covid c’è stato «un processo di rimozione collettiva che dovrebbe farci riflettere», ha scritto Ferruccio de Bortoli nella sua rubrica Frammenti.
Inferno yemenita Nell’appuntamento settimanale con Amnesty International, Riccardo Noury ci porta nello Yemen controllato dagli houthi, la cui ostilità contro ogni intervento dell’Onu e di altre organizzazioni umanitarie ha conseguenze sempre più tragiche.
La Cinebussola Paolo Baldini stavolta ci racconta L’uomo di argilla, di Anaïs Tellenne.
Se vi va, scriveteci.
Gianluca Mercuri gmercuri@rcs.it Luca Angelini langelini@rcs.it Elena Tebano etebano@rcs.it Alessandro Trocino atrocino@rcs.it
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per lavori di ristrutturazione
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Rassegna penitenziaria |
Bologna, lo strano caso del ghetto in carcere per giovani stranieri e il Polo universitario smantellato |
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È una piccola storia, di quelle che non escono sui giornali, o vengono relegate in un trafiletto. Eppure vale la pena raccontarla, perché la realtà delle carceri somiglia più a questa vicenda che non alle polemiche sull’ultima battuta del ministro o sulla penultima dichiarazione dell’onorevole. Siamo a Bologna, nella casa circondariale Dozza. Un carcere che ha 500 posti di capienza regolamentare e 853 detenuti. Sovraffollamento grave, dunque. Eppure proprio qui il ministero della Giustizia – tramite il Dap, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – ha in programma di installare una sezione speciale per giovani detenuti «difficili». La motivazione ufficiale è quella del sovraffollamento degli Istituti minorili (Ipm): ci sono in tutta Italia 610 minori detenuti su 500 posti regolamentari. Sovraffollamento grave anche qui, quindi.
Proviamo a capire. C’è il Dipartimento per la giustizia minorile, che gestisce gli istituti per minori. Il suo capo, Antonio Sangermano, chiede aiuto al Dap, che deve far fronte a un enorme sovraffollamento dei suoi istituti – e gli dice, più o meno: «Houston, abbiamo un problema, non sappiamo più dove mettere i nostri ragazzi, ci date una mano?». Il Dap – che peraltro da mesi non ha scandalosamente il suo capo (si legga Nello Trocchia) – ci pensa un po’, poi risponde così: «Perché non li mandiamo a Bologna, alla Dozza? Prendiamo una sessantina di ragazzi di varie regioni, di quelli più problematici, e facciamo una sezioncina speciale». Quali ragazzi? Saranno non propriamente minori, ma quelle persone che hanno commesso reati da minorenni e che sono diventate maggiorenni in carcere: normalmente fino a 25 anni possono restare negli istituti per minori (è una scelta del magistrato di sorveglianza, per evitare che entrino subito in contatto con delinquenti incalliti e anziani). Ma negli Ipm non c’è più posto, si scoppia. A Torino dormono per terra, al Beccaria succede di tutto. E quindi ne mandiamo un po’ in un’enclave della Dozza. Già, ma chi selezioniamo? Ai sindacati è stato detto che saranno mandati soprattutto stranieri non accompagnati e che non partecipano ad attività trattamentali. Non si dice apertamente, ma si tratta di giovani violenti, casi particolarmente difficili. Alla Dozza, a quanto pare, prenderanno il posto dei detenuti del Penale, che a loro volta andranno in quello dell’Alta Sicurezza, ovvero dove ci sono i responsabili di reati gravi e associativi. Dove andranno questi? Saranno trasferiti in altri istituti, già sovraffollati di loro. È un po’ il gioco della coperta corta: la tiri da una parte, ti scopri dall’altra.
A Bologna, tra l’altro, nessuno sapeva nulla. La giunta comunale era all’oscuro, la Regione anche e fino a tre giorni fa, quando la decisione era già presa da mesi, neanche il servizio sanitario territoriale ne sapeva qualcosa. Roma, dunque, prende 50 detenuti difficili da tutta Italia e li concentra a Bologna, nel cuore dell’Emilia rossa. Perché proprio lì? Non si sa. Quello che è certo è che in Emilia-Romagna ci sono 10 istituti penitenziari, tutti enormemente sovraffollati, e che anche per questo gli avvocati bolognesi sono in sciopero da tempo (immaginiamo che tra questi non ci sia Galeazzo Bignami, avvocato autosospesosi da quando è diventato capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera).
Dall’interno, alcuni volontari ci aggiungono alcuni particolari. Alla Dozza c’era qualcosa di cui andare fieri: il polo universitario penitenziario, istituito nel 2015 grazie al protocollo d’intesa con l’Alma Mater di Bologna. Un bel progetto che ha consentito a molti detenuti di studiare e laurearsi nelle facoltà che non prevedono frequenza obbligatoria e di dare un senso a tutto quel tempo, per non uscire come e peggio di prima e tornare a delinquere. C’era un braccio, al primo piano del carcere, l’1 D, dedicato a queste attività. C’erano computer, schermi per fare lezioni ed esami in conferenza, libri, postazioni. Da qualche mese, i pc sono per terra, i televisori accatastati, le lavagne rotte, le scrivanie rimosse, la libreria smontata. Che è successo? La parola magica è sempre quella: sovraffollamento.
Il garante delle persone private della libertà di Bologna, Antonio Ianniello, conferma: «Era uno spazio condiviso con i detenuti che giocavano a rugby. Poi ci sono stati problemi e soprattutto c’è stata la necessità di collocare nuovi giunti. Quando morde il sovraffollamento c’è poco da fare». È un processo noto: arrivano nuovi reclusi e spariscono i luoghi per il trattamento. Per il principio della non compenetrazione dei corpi, lo spazio viene a mancare.
Ma questa enclave minorile (i detenuti non sono minori, ma sarà comunque una sezione separata e gestita dal Dipartimento dei minori), non sarà un ghetto? Una sorta di Alta sicurezza per giovani stranieri difficili? Un luogo dove rischiano di entrare in contatto con delinquenti incalliti e di restare lontani da qualunque tipo di attività? «Il rischio c’è – dice Ianniello – anche se il Dipartimento ci ha assicurato che faranno in modo di creare attività. La preoccupazione è molto alta, anche se ci è stato garantito che si tratta di una sistemazione provvisoria». Come dicevano in tanti (tra gli altri Flajano e Prezzolini) e come sappiamo tutti, in Italia non c’è nulla di più definitivo del provvisorio. «Questo è vero, ma ci hanno detto che nei prossimi mesi saranno acquisiti degli spazi per 90 posti negli istituti di Lecce, Aquila e Rovigo».
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Basteranno? La domanda non è retorica, perché panpenalismo e faccia feroce stanno facendo scoppiare i numeri. Ce ne dice uno importante Ianniello: «Ad agosto 2023, prima del decreto Caivano, c’erano 436 minori detenuti negli Ipm. Dieci giorni fa erano 610. Dunque in poco più di un anno c’è stato un aumento del 30 per cento. Numeri così importanti la giustizia minorile non ne aveva mai conosciuti. Il decreto Caivano ha allargato la possibilità di custodia cautelare per i minori. Non sarà l’unica causa dell’aumento dei minori in carcere, ma certo ha influito molto».
La tendenza è quella, non solo per i minori. In un anno le carceri per adulti hanno visto crescere di più di duemila persone i detenuti. Siamo a 62 mila. Quando la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza Torreggiani, ci ha condannati, eravamo a 67 mila. Manca poco».
Cosa si sta facendo? Niente, a quanto risulta. Se non cercare disperatamente nuovi spazi, che non basteranno se i trend di crescita restano questi. Tutte le proposte possibili – ampliare le misure alternative, concedere una liberazione anticipata speciale, dare un’amnistia o un indulto, ridurre l’impatto della custodia cautelare, spostare tossicodipendenti e persone con problemi psichiatrici in strutture protette – non vengono neanche prese in considerazione o non vengono attuate.
I suicidi, intanto aumentano. Sembra una frase fatta, ma è la realtà dei numeri. Nel 2024 c’è stato il record, con 89 persone che si sono impiccate o asfissiate con il gas. Quest’anno siamo a 14. Con questo tasso, si supereranno i 100.
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Rassegna della guerra |
L’Ucraina umiliata e a rischio di colonizzazione |
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difficile da pignorare
Le parole che il presidente Donald Trump ha rivolto in queste ore al presidente Volodymyr Zelensky hanno suscitato stupore e indignazione nelle capitali europee e un’ovvia euforia al Cremlino. Accusando Zelensky di avere provocato la guerra, Trump ha compiuto una cinica giravolta politica e una vergognosa rilettura della Storia, pur avendo qualche argomento non del tutto campato per l‘aria quando sostiene che si poteva lavorare un po‘ meglio per la pace e prendere coscienza un po‘ prima del fatto che l‘Ucraina, per la sproporzione delle forze in campo, non poteva vincere la guerra. Tanto più che gli aiuti occidentali, per quanto importanti, non sono stati né continui né sostenuti da compattezza politica. Anche le promesse di ingresso nella Nato si sono rivelate aleatorie e a questo punto persino irresponsabili e false. In sostanza, una delegittimazione totale, cui si aggiungono almeno per l‘ora l‘esclusione dal tavolo delle trattative e un‘oggettiva caduta di consensi in patria.
Ciò che è meno evidente è però il vero obbiettivo dell‘amministrazione americana, a prescindere dal destino di Zelensky e delle condizioni per la pace che Trump riuscirà a concordare con Putin. In poche parole, affari, affari e ancora affari sulla pelle di un popolo decimato dalla diaspora e dai lutti e impoverito per generazioni. Insomma, il bottino di guerra, come vedremo, è la condizione sine qua non per definire il quadro geopolitico del dopoguerra. Alla faccia dell’eroismo di Zelensky e del suo popolo. Che gli europei aprano le porte della Ue all’Ucraina è una possibilità cui non si oppone nemmeno Putin, al quale interessano di più la fine delle sanzioni, la ripresa delle relazioni economiche e un decente dialogo con gli Stati Uniti. Come abbiamo anticipato nei giorni scorsi, si tratta di quello che per l’Economist si sta delineando come un brutale furto ai danni dell’Ucraina. In cambio dell’aiuto americano fornito a Kiev, Washington chiede «500 miliardi di dollari» in risorse naturali. Litio, destinato alle batterie delle auto elettriche (il 10% delle riserve mondiali si troverebbe sul territorio ucraino); titanio per l’industria aerospaziale (dal 10 al 20% delle riserve mondiali); grafite, componente essenziale nella produzione di smartphone; idrocarburi e terre rare.
«Le ricchezze del Donbass e delle regioni circostanti suscitano da tempo la brama di molti, ricorda la britannica Skynews. Nel XIX secolo, lo zar Alessandro II identificò le rive del Siverskyj Donets come un luogo ideale per la produzione di acciaio, a causa dei grandi giacimenti di carbone e ferro nelle vicinanze. Successivamente, durante la Seconda Guerra Mondiale, Adolf Hitler invase il Paese per le sue risorse. Questa volta le intenzioni provengono da un “amico”, il principale alleato di Kiev». In realtà, già messo alle strette, la proposta di aprire i sotterranei del Paese agli investimenti occidentali era stata avanzata dal presidente ucraino in autunno quando presentò l’improbabile piano per la vittoria in cinque punti. Ma la contropartita dovevano essere la sicurezza del Paese e un sistema di deterrenza strategica.
Donald Trump non sembra tenerne conto, salvo lasciare fare il lavoro agli europei, se ne avranno i mezzi e la volontà unanime. Ma l’Europa oggi appare divisa sull’impegno strategico in Ucraina e in conflitto sulla posizione da prendere nei confronti di Washington. Il presidente degli Stati Uniti approfitta di un Vecchio Continente «economicamente indebolito, politicamente frammentato e militarmente ridicolo» per avanzare le sue pedine nel conflitto in Ucraina. «Vista da Washington, l’Europa è un vecchio vacillante» e Trump «vuole impedirle di rafforzarsi», perché «diventerebbe davvero una potenza mondiale se si unisse», sostiene la rivista ungherese HVG.
Anche alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza, Zelensky aveva ribadito la necessità di ottenere chiare garanzie di sicurezza in cambio della «distribuzione delle risorse naturali». Il presidente ucraino vorrebbe coinvolgere altri attori internazionali, come l’Unione europea, il Regno Unito e il Canada, come osserva il Financial Times, anche perché già esiste un accordo di cooperazione e sfruttamento con Bruxelles. L’Associazione nazionale ucraina delle industrie estrattive sottolinea: «Attualmente, la Cina controlla oltre l’80% del mercato mondiale delle terre rare. Gli Stati Uniti e l’Unione europea stanno cercando altre fonti per ridurre la loro dipendenza da Pechino». Di conseguenza, «l’Ucraina potrebbe svolgere un ruolo in questa strategia, ma ciò richiede riforme e investimenti seri».
Sul suo sito, il quotidiano ucraino Telegraf fornisce maggiori dettagli sulle «importanti risorse» di cui dispone l’Ucraina. «Nel territorio del nostro Paese si trova circa il 5% delle “materie prime critiche” del mondo, per un valore stimato di 12.000 miliardi di dollari». Ciò include i metalli delle terre rare, così come il litio e il titanio, che non appartengono al gruppo delle terre rare. «I metalli rari – continua il Telegraf – comprendono lo scandio, l’ittrio e tutti i lantanidi. […] Questi metalli presentano caratteristiche uniche […] che li rendono insostituibili nel settore dell’alta tecnologia, in particolare per l’elettronica, la produzione di batterie, magneti, laser e moderne tecnologie militari».
Ma Kiev si scontra con due ostacoli nel suo desiderio di utilizzare questo vantaggio. Da un lato, afferma il finanziere Oleksi Kushch sul sito del quotidiano Gazeta, «oggi l’Ucraina non ha i mezzi per sviluppare lo sfruttamento di questi giacimenti». D’altra parte, avverte il Telegraf, «molti giacimenti di terre rare si trovano nei territori occupati. Nel 2022, l’Ucraina ha perso il controllo di circa il 33% di questi giacimenti». Kushch paragona le terre rare alle spezie in Dune, il capolavoro di fantascienza dello scrittore americano Frank Herbert: «Ci si deve aspettare una “grande guerra commerciale” su scala mondiale, e una delle battaglie si svolgerà per le “consegne di spezie”, come in Dune. Solo che le terre rare sostituiranno le spezie».
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Prima dell’invasione russa, precisa, gran parte di queste preziose risorse erano monopolizzate dagli oligarchi. «Dopo la guerra, saranno le multinazionali a sostituire gli oligarchi», assicura Kushch, a scapito del Paese, in entrambi i casi. «Possiamo naturalmente sperare che ci rimangano degli strumenti, come le tasse sulle esportazioni e l’affitto dei siti di estrazione delle risorse. Ma non siamo ingenui. Chi, da noi, avrà il coraggio di imporre tasse e affitti alle imprese internazionali? E soprattutto a quelle americane? Basta vedere cosa sta succedendo ora con la Colombia e Panama, e si capisce tutto».
La politologa Maryna Danyliouk ha una visione più positiva, o almeno ironica, della possibile evoluzione della situazione. Ad esempio suggerisce di vendere prima a Trump i giacimenti che si trovano nei territori occupati dalla Russia: «Sarebbe logico offrirgli quelle fabbriche e quelle miniere, così avrebbe un interesse personale nel fatto che l’Ucraina vinca la guerra».
Come notano alcuni report da Kiev, sull’Ucraina regnano oggi insicurezza, smarrimento, senso di abbandono. Le proposte di Trump equivalgono a una colonizzazione economica a tempo indeterminato. I termini vanno oltre le semplici risorse naturali per includere il valore delle infrastrutture, come i porti. Il Daily Telegraph ha fatto qualche calcolo che lascia sgomenti : «Le richieste di Trump sarebbero più costose, in rapporto al Pil ucraino, delle riparazioni imposte alla Germania nel quadro del trattato di Versailles», firmato all’indomani della prima guerra mondiale. In pratica un assurdo certificato di morte e di sconfitta.
«Non posso vendere il nostro Stato», ha ribattuto Zelensky, beccandosi parole ancora più ingiuriose da Trump: «Lui, un comico dalla carriera modesta, ha convinto gli Stati Uniti a spendere 350 miliardi di dollari e a imbarcarsi in una guerra che non poteva essere vinta» (in realtà, il Congresso Usa ne ha autorizzati 175 in cinque tranche e di questi oltre 70 sono andati a imprese americane produttrici di armi, ndr). In pratica, l’Ucraina è con le spalle al muro, costretta a subire la violazione del diritto internazionale da parte della Russia e lo stritolamento economico da parte del suo principale alleato.
Agli occhi di Washington, la posta in gioco è diversificare le fonti di approvvigionamento delle materie prime. Le ricchezze sotterranee ucraine permetterebbero, a costi minori, di temperare il dominio cinese nel settore dei minerali critici. Il che dimostra che l’altra faccia della partita che Trump sta conducendo si chiama Cina. Contrastare la leadership cinese è la posta in gioco e anche per questo c’è interesse a ristabilire buone relazioni con Mosca, scongiurando l’ipotesi che l’abbraccio della Russia con la Cina sia irreversibile.
È interessante, al riguardo, la citata analisi dell’Economist. Il settimanale britannico rivela che saranno comunque necessari investimenti notevoli perché le risorse del sottosuolo ucraino diventino effettivamente redditizie. E rimane incerta la loro esatta ubicazione, o addirittura la loro esistenza, «poiché sono stati condotti pochissimi studi sull’argomento dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica», nel 1991. «È molto difficile sapere se si tratta davvero di quantità rivoluzionarie», sottolinea scettica Sky News. Senza contare che gran parte delle riserve si trova ora in territori controllati dalla Russia. A questo punto, il canale televisivo privato britannico avanza con una buona dose di cautela, «non si sa ancora se si tratti di un colpo di genio ucraino, che riuscirebbe a vendere agli americani qualcosa che si rivelerà molto meno prezioso di quanto sembri, o di un caso evidente di appropriazione coloniale».
È in ogni caso chiaro, in questo quadro, che la posizione dell’Europa si fa ancora più delicata e costosa nel tempo, dal momento che soltanto i Paesi europei, ritrovando unità, potranno concorrere alla protezione di Kiev e soltanto i Paesi europei dovrebbero (il condizionale è d’obbligo) fare quello sforzo di solidarietà per la ricostruzione che gli americani condizionano invece alla spartizione delle ricchezze.
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Rassegna tecnologica |
Big Tech s’è inchinata a Trump. Motivo in più perché l’Ue non s’inchini a Big Tech |
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I lettori più attenti di questa Rassegna forse ricorderanno che c’è già capitato almeno un paio di volte di citare Marietje Schaake, dell’Institute for Human Centered Artificial Intelligence alla Stanford University, autrice dell’assai raccomandabile The Tech Coup. How to Save Democracy from Silicon Valley. Se segnaliamo di nuovo un suo intervento, sul Financial Times, è perché ovviamente non le è sfuggito che la «lezione di democrazia» e di «libertà d’espressione» impartita all’Europa dal vicepresidente Usa J.D. Vance sembrava presa pari pari dal manuale di Elon Musk (o di Peter Thiel, co-fondatore di Paypal con Musk, tra i primi investitori in Facebook e grande sponsor dell’ascesa politica di Vance).
«Il suo discorso – scrive Schaake, in passato eurodeputata per il partito olandese Democratici 66 – ha segnato la fine formale dell’alleanza transatlantica così come è esistita dalla seconda guerra mondiale. La retorica di Vance ha comunicato un profondo disprezzo per l’Europa, mettendo in discussione la sua democrazia. Le aziende tecnologiche che hanno offerto un sostegno senza precedenti a Trump apparentemente non lo considerano un problema. Si sono allineate come forze antieuropee. Mentre l’Europa fa i conti con la nuova realtà transatlantica, i suoi leader dovrebbero iniziare a trattare i giganti della Silicon Valley come potenze avversarie».
Del resto, sono proprio i colossi di Big Tech a considerare, per primi, l’Unione europea come una «potenza avversaria». E Schaake è prodiga di esempi. Ne prendiamo soltanto un paio: «Joel Kaplan, responsabile degli affari globali di Meta, ha dichiarato pubblicamente che l’azienda conta sulla Casa Bianca per sfidare i governi europei da cui si sente discriminata. Mark Zuckerberg, nel frattempo, ha esercitato pressioni su Trump per contrastare le multe europee in materia di concorrenza, nel tentativo di farle considerare come misure commerciali punitive. (…) L’abbraccio di Elon Musk all’agenda di Trump esemplifica ulteriormente la complicità della Silicon Valley. Musk continua a sostenere i politici di estrema destra in Europa e ora usa il suo crescente controllo sul governo degli Stati Uniti per promuovere i suoi obiettivi aziendali. Con una crescente influenza su settori chiave, l’allineamento di Musk con l’amministrazione Trump segnala una nuova era in cui le aziende tecnologiche sono di fatto attori (geo)politici».
La conclusione di Schaake è amara: «Non è passato molto tempo da quando queste aziende tecnologiche si presentavano come difensori della democrazia e dei diritti umani. Questa narrazione, per quanto romanzata fin dall’inizio, in retrospettiva appare ancora di più come una posizione opportunistica. Sostenendo l’amministrazione Trump, le aziende tecnologiche contribuiscono attivamente al disfacimento di un ordine internazionale basato sullo Stato di diritto e sulla democrazia». Per questo motivo, aggiunge, «se l’Europa spera di salvaguardare la propria sovranità e i propri valori, deve disaccoppiare strategicamente e ridurre drasticamente la propria dipendenza da aziende che cercano lo scontro o che sono altrimenti vulnerabili a essere “militarizzate” da Washington».
Al che sembra già di vedere un cader di braccia, pensando al ritardo tecnologico dell’Unione europea. Come ripete qualcuno, in campo tech «l’America innova, la Cina copia e l’Europa mette delle regole». Ora, a parte che, in un altro articolo sul Financial Times, Schaake aveva indicato qualche esempio europeo di successo alternativo al modello Silicon Valley (vedi la basca Mondragon Corporation) e a parte che, dalla Cina, qualche segnale che il Dragone non si limiti a copiare è arrivato (vedi il nuovo sistema operativo di Huawei o l’intelligenza artificiale di DeepSeek) il mettere regole – visti i guasti tardivamente scoperti provocati da social e saccheggio dei dati – non andrebbe considerato uno sforzo così disprezzabile. E non è soltanto una preoccupazione da (ex) frequentatori delle aule di Bruxelles e Strasburgo come Schaake.
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Daron Acemoglu ha ad esempio riassunto, in un intervento pubblicato da Le Grand Continent, alcune delle tesi di uno dei libri (anch’esso assai raccomandabile), Potere e progresso, che gli sono valsi il Nobel per l’Economia 2024 assieme ai co-autori Simon Johnson e James A. Robinson (qui l’intervista che Acemoglu ha concesso a Federico Fubini). Già il titolo lo avvicina a Schaake: «Il futuro dell’Europa non è l’IA della Silicon Valley». Spiega Acemoglu che ci sono due modi sostanzialmente diversi di guardare agli sviluppi dell’Intelligenza artificiale:
Il primo è la corsa senza fine verso l’intelligenza artificiale generale e poi la superintelligenza, in cui le macchine superano gli esseri umani in quasi tutte le attività. Se questa visione può suscitare timori di un dominio delle macchine, la minaccia principale, in questo scenario, proviene in realtà dal potere incontrollato di chi sviluppa e gestisce questi sistemi. Un simile futuro aggraverebbe enormemente le disuguaglianze e, privandoci della nostra capacità di azione, ridurrebbe e svuoterebbe il significato stesso dell’essere umano.
Acemoglu è piuttosto scettico sul fatto che questa strada, per quanto in perfetta sintonia con le fantasie di tecno-dominio planetario (e magari interplanetario) di Musk, Thiel e soci, porti i vantaggi promessi: «Ci si può chiedere se l’intelligenza artificiale generale sia davvero realizzabile nel prossimo futuro. Anche se lo fosse, è improbabile che porti con sé i guadagni di produttività promessi. Uno scenario più realistico è che sistemi di IA di qualità inferiore sostituiscano i lavoratori in compiti in cui questi ultimi apportano esperienza e creatività, finendo così per distruggere valore economico anziché crearlo».
La spinta di Big Tech in questa direzione è, dopo l’elezione di Trump (e Vance) ancora più forte (vedi la foto di gruppo di Zuckerberg, Bezos, Pichai e compagnia alla cerimonia di inaugurazione o il lancio del progetto Stargate). Ma, secondo Acemoglu, una strada alternativa rimane e l’Unione europea dovrebbe, nonostante tutte le difficoltà, sforzarsi di imboccarla:
La seconda via è quella che io e i miei colleghi chiamiamo un’«IA a favore dei lavoratori» o «a favore dell’umanità». In questa visione, l’IA diventa uno strumento per responsabilizzare gli individui e rendere i lavoratori più produttivi, fornendo loro informazioni contestuali e affidabili in supporto alla loro competenza. La priorità è garantire agli individui il controllo sui propri dati e consentire di svolgere un più ampio ventaglio di compiti con maggiore sicurezza e autonomia. A differenza della prima, questa seconda prospettiva non è un’utopia. L’IA può già oggi creare sistemi che aiutano concretamente lavoratori e cittadini. Tuttavia, questo potenziale sarà vanificato se l’architettura su cui si basa è progettata per imitare e superare gli esseri umani anziché per sostenerli e aiutarli. Invece di sviluppare strumenti per migliorare il processo decisionale, molte aziende sembrano più preoccupate di creare modelli che producono mere imitazioni prive di sostanza o altre riproduzioni superficiali e prive di vita. Per preservare ciò che ci rende umani — e lasciare la creatività al suo giusto posto — l’IA deve liberarsi dall’obiettivo della semplice imitazione. Dovrebbe fornire indicazioni chiare e interpretabili ai decisori umani, aiutandoli a fare scelte più informate.
Ad avviso di Acemoglu, Big Tech ha prosperato grazie a modelli di business che «generano profitti colossali automatizzando compiti, abbattendo i costi del lavoro e monopolizzando la pubblicità digitale, senza alcun interesse per l’autonomia dei lavoratori o il rafforzamento delle democrazie». Anche se modelli alternativi, più benefici per la società, esistono, il premio Nobel non è così ingenuo da non sapere che la strada per imporli è in salita. Anche per le dimensioni di chi, quella strada, cercherà di sbarrarla: «Purtroppo, le attuali condizioni di mercato consentono alle aziende dominanti di rafforzare la propria posizione egemonica: le Big Tech dispongono di immense risorse finanziarie — per acquistare o soffocare la concorrenza —, di enormi quantità di dati, di basi di clienti colossali e del favore di legislatori che sembrano aver rinunciato a qualsiasi politica di concorrenza. (…) Protette e sostenute dalla nuova amministrazione americana, le Big Tech hanno una strategia chiara nella loro incessante corsa all’IA: intendono usare questa tecnologia come strumento per consolidare il proprio dominio e rimodellare i mercati globali a proprio vantaggio».
Eppure, nonostante gli sfavori del pronostico, è di vitale importanza raccogliere la sfida. E a farlo dovrebbe essere proprio l’Europa: «Non è il momento di rassegnarsi. La storia non è ancora scritta. (…) L’Europa non può limitarsi a essere un consumatore passivo di questi sistemi, sviluppati senza tener conto della sovranità economica, della capacità di innovazione o dei valori democratici. L’emergere recente del modello linguistico di DeepSeek dimostra che l’innovazione può ancora prevalere sulla dimensione aziendale, a patto di creare le giuste condizioni. Affrontando direttamente il potere e l’influenza delle Big Tech — per esempio applicando il diritto alla concorrenza in modo sistematico e strategico — e promuovendo una visione dell’IA che metta al centro la dignità e l’autonomia umana, i governi europei possono ancora costruire un’alternativa: un ecosistema veramente competitivo. Solo a questa condizione la tecnologia potrà continuare a contribuire alla prosperità dei lavoratori e dei cittadini, anziché trasformarsi in uno strumento di dominio nelle mani di una minuscola élite per asservire il resto dell’umanità».
Schaake non potrebbe essere più d’accordo: «La posta in gioco non è mai stata così alta. Mentre l’America si allontana sempre più dai suoi alleati europei, le aziende tecnologiche consolidano la loro fedeltà a un governo che rappresenta una minaccia fondamentale per i valori che l’Europa ha a cuore. È giunto il momento per l’Europa di porre fine alla sua debilitante dipendenza dai gruppi tecnologici americani e di adottare misure concrete per proteggersi dai crescenti pericoli di questo nuovo panorama geopolitico alimentato dalla tecnologia».
Inutile aggiungere che, anche in questo caso, il primo comandamento per i Ventisette è di «agire come se fossero un unico Stato», per dirla con Mario Draghi. Ma l’ha detto anche un altro Mario, Monti, a Federico Fubini, invitando i Paesi Ue a «non essere minimamente inclini ad attenuare le regole sulla concorrenza in genere e in particolare sul digitale. Se ci dividiamo su quello, se finiamo con 27 piccole autorità antitrust nazionali, saremo debolissimi. Ha visto chi è stato appena nominato alla testa della Competition and Markets Authority del Regno Unito? Doug Gurr, ex country manager di Amazon nel Paese ed ex presidente di Amazon China».
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Frammenti |
Cinque anni fa il Covid, anatomia di una rimozione collettiva |
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Quel lungo periodo di sofferenza, angoscia, morti e limiti alle libertà individuali sembra ormai sepolto nella Storia. Lontanissimo. C’è stato un processo di rimozione collettiva che dovrebbe farci riflettere. Colpiscono le parole di uno scienziato come Alberto Mantovani, il quale parlando con Repubblica, si duole del fatto che la propensione a vaccinarsi sia in caduta libera. Nei mesi di lockdown, mentre attendevamo con ansia l’arrivo dei primi vaccini, ognuno di noi era convinto che, una volta usciti dall’emergenza sanitaria, sarebbe accaduto il contrario. «Assistere – dice il presidente della Fondazione Humanitas per la Ricerca – al rifiorire di teorie antiscientifiche, come l’infondata correlazione tra vaccini e autismo, è sconfortante».
Condividiamo lo sconforto. Ma la comunità scientifica italiana – i cui membri non mancarono di apparire e commentare a ogni ora del giorno – dovrebbe chiedersi se non sia opportuna una discussione pubblica, una rivisitazione anche critica di quel periodo. Un dibattito sincero su come venne affrontata una pandemia sconosciuta, sulle scelte corrette che consentirono di salvare tante vite umane e sugli inevitabili errori. Lasciare lo spazio della memoria ai no vax, platea corteggiata e blandita da diverse forze politiche, non è il modo migliore di far crescere una cultura della vaccinazione.
Alla manifestazione «No green pass» del 21 novembre 2021 in piazza del Duomo a Milano, l’ospite d’onore fu Robert Kennedy junior. Oggi è il segretario alla Salute dell’amministrazione Trump, nonostante una lettera, preoccupata a dir poco, di 75 premi Nobel americani.
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Il Punto con Amnesty International |
In Yemen morto in carcere un operatore umanitario delle Nazioni Unite |
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Ci sono voluti giorni prima che si sapesse almeno il nome, Ahmed, e che aveva due figli. Ahmed è morto nella parte dello Yemen ancora controllata dagli houthi, il gruppo armato filo-iraniano che aveva preso il potere una decina d’anni fa e più noto da noi per i missili lanciati contro Israele negli ultimi mesi che per aver contribuito – insieme alla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita che dal 2015 gli ha fatto la guerra -a una delle più gravi crisi contemporanee del pianeta. Risultato: oltre 18 milioni di persone, ben oltre la metà della popolazione, costrette a dipendere dagli aiuti umanitari.
Ahmed era un collaboratore locale del World Food Programme, l’organismo delle Nazioni Unite attivo in Yemen come in altri luoghi di crisi. Era stato arrestato il 23 gennaio a Sa’ada insieme ad altri sei operatori umanitari yemeniti dell’Onu e portato in un centro di detenzione diretto dagli houthi nel nord del Paese. Ahmed è morto in circostanze estremamente sospette, forse a causa delle torture o del diniego di cure mediche. Gli altri suoi colleghi restano in carcere, senza accusa né processo e senza poter incontrare un avvocato.
Gli houthi sono ostili a ogni forma di operato delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative, ossia di coloro che cercano di non far morire di fame la popolazione di cui il gruppo armato al potere dovrebbe prendersi cura. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno dello scorso anno, gli houthi hanno arrestato 63 persone che lavoravano per le une o per le altre. Solo tre di loro sono state scarcerate. Quattro operatori locali dell’Unesco e dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, arrestati rispettivamente nel 2021 e nel 2023, sono tuttora in carcere. Il 25 ottobre 2023 è morto in carcere Hisham al-Hakimi, un dirigente locale di Save the Children. Era stato arrestato un mese prima.
Amnesty International ha sollecitato un’indagine urgente, efficace e imparziale sulle circostanze della morte di Ahmed. Le Nazioni Unite, che già dopo gli arresti del 23 gennaio avevano ordinato a tutto il loro personale di non uscire di casa nelle zone controllate dagli houthi, hanno disposto la sospensione di tutte le attività nella zona di Sa’ada: una decisione che, se gli houthi non cambieranno atteggiamento, rischia di avere un impatto devastante sull’accesso agli aiuti umanitari di milioni di persone già alla fame.
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La Cinebussola |
Un uomo d’argilla che esalta i buoni sentimenti e la vita rurale |
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È l’artista, solo il vero artista che riesce a sbirciare nell’animo umano fino a carpirne l’essenza, gli elementi speciali, e a rilanciarli nelle sue opere? Ma che cosa ci può essere di davvero speciale custodito nel corpaccione sgraziato di Raphaël, povera creatura della provincia francese, 59 anni, un omone gentile, privo di un occhio e d’aspetto bestiale, che vive con la madre anziana e scorbutica, fa il giardiniere-custode del vicino castello, suona la cornamusa come uno scozzese con un gruppo folk provando di notte in una cava per non disturbare?
Raphaël caccia le talpe, è un instancabile lavoratore e fa l’amore nei boschi con l’allegra postina che sfreccia su un furgone giallo e lo chiama Beethoven per le sue attitudini musicali: «Non importa come sei, conta il piacere che ci diamo». Il gigante con un occhio solo, tuttavia, soffre: è prigioniero dei pregiudizi, vittima delle vipere di paese, in forte carenza d’affetto, lui così tenero e facile alla commozione. Dunque, un infelice.
Tutto cambia quando una notte di pioggia nel castello arriva una donna, l’erede della tenuta. Si chiama Garance Chaptel ed è in preda a istinti suicidi. Raphaël le sta accanto, la salva, la cura. Garance (come il personaggio interpretato da Arletty nel super classico Les Enfants du paradis – Gli amanti perduti di Marcel Carné, 1945) è un’artista famosa, scultrice e autrice di performance che vuol fare della sua vita un’opera d’arte e conserva turbe e dispiaceri in un parterre di fiale come fossero essenze.
Detto fatto, Garance comincia a ritrarre Raphaël: lo considera materia da sgrezzare, come se dovesse togliergli la corazza che si è costruito e che lo separa dal mondo, estraendo la parte buona di lui, a lungo oscurata. Nasce una scultura a grandezza umana e Raphaël diventa «l’uomo di argilla» perché di argilla è fatta la statua che lo raffigura.
Il gigante posa per Garance che, giorno dopo giorno, lo riplasma oltre le sue imperfezioni, intuendone la sensibilità. Modifica la percezione comune su di lui e la ritrasmette, pura e magnetica. «Il tuo corpo è un panorama», dice Garance a Raphaël. È come una nuova madre, a cui però Raphaël guarda con la tenerezza di un innamorato, pronto a soffrire quando al castello arriva un giovane con l’auto sportiva che potrebbe essere l’amante di Garance.
«Il mio film propone una storia che i musei e le gallerie non raccontano», dice la regista parigina Anaïs Tellenne, attrice e ballerina, classe 1987, sintetizzando il suo poema romantico – proposto con successo a Venezia 2024 – esaltando le molte assonanze con La forma dell’acqua di Guillermo Del Toro. In realtà, L’uomo di argilla parla della creazione, dei buoni sentimenti, delle relazioni intime tra persone divise dal sentire sociale: ed è un elogio della vita rurale contro gli stress cittadini.
Raphaël Thiéry, già visto in Povere creature di Yorgos Lanthimos e Le vele scarlatte di Pietro Marcello, è l’interprete ideale dell’omone compresso e solitario: un solo sguardo, ma indimenticabile. Emmanuelle Devos è il turbine Garance che lo rimette al mondo.
L’UOMO DI ARGILLA di Anaïs Tellenne (Francia-Belgio, 2023, durata 94’, Satine Film) con Raphaël Thiéry, Emmanuelle Devos, Marie-Christine Orry, Mireille Pitot, Alexis Louis Lucas Giudizio: 3+ su 5 Nelle sale
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