«Il seme del fico sacro», protesta e repressione in Iran con un’opera lucida e sottile

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di
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Il divieto di fare film ha costretto il regista Rasoulof, nominato agli Oscar, a girare quasi completamente in interni e a ridurre al minimo il cast per ragioni di sicurezza

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Non fate come i giurati di Cannes che hanno pensato di mettersi l’animo in pace con un «premio della giuria» che assomigliava solo a una generica dimostrazione di solidarietà per il regista appena fuggito dalla repressione iraniana. No, «Il seme del fico sacro» di Mohammad Rasoulof (candidato agli Oscar come miglior film straniero) è un’opera di grande sottigliezza psicologica e politica insieme, capace di far tesoro delle proibitive condizioni di ripresa per ribadire quello che oggi le persone devono affrontare in Iran. Senza proclami, senza scene madri ma con una lucidità che ti entra dentro come una lama affilatissima.

Guardate le scene dell’«interrogatorio». La mamma Najmeh (Soheila Golestani) accompagna le due figlie Sana (Setareh Maleki) e Rezvan (Mahsa Rostami) da Alireza (Mohammad Kamal Alkavi), un «amico di famiglia», specializzato nell’interrogare i sospetti. «Sono il custode dei segreti» dice a Najmeh con tono insinuante e immediatamente capisci che non sta facendo delle domande, ma piuttosto pretende delle ammissioni, delle confessioni, anche se la donna non ha nulla da ammettere o confessare. E quando tocca alle figlie, che il padre Iman (Missagh Zareh) ritiene le possibili autrici del furto della sua pistola, i modi cambiano radicalmente e lo spettatore scopre sullo schermo i metodi che la polizia usa con i sospettati.




















































Ma come si è arrivati a questo punto, se un padre dubita delle proprie figlie? Rasoulof (anche sceneggiatore) mette a confronto due linee narrative. Da una parte c’è Iman, arrivato dopo vent’anni di dura carriera all’agognata nomina a giudice istruttore, penultimo passo prima della carica di giudice tout court che gli permetterebbe anche un salto economico non indifferente. Sono i giorni della protesta «Donna, Vita, Libertà» e per difendersi gli viene data una pistola, ma soprattutto è trascinato nell’irrefrenabile ingranaggio della repressione: non deve indagare, come supporrebbe il suo ruolo di inquirente, ma solo avvalorare le decisioni già prese sopra di lui e firmare degli atti d’accusa non certo basati su prove.

Dall’altra parte ci sono le sue due figlie, Sana che frequenta il liceo e l’universitaria Rezvan: la morte di Jina Mahsa Amini, che si accascia al suolo per «un ictus» ( la versione ufficiale) dopo essere stata «interrogata» dalla polizia, scatena le proteste brutalmente represse dalle milizie i cui effetti Rezvan vede sul volto dell’amica Sadaf (Niousha Akhshi) e che le due sorelle seguono attraverso i filmati diffusi sui cellulari (qui perfettamente integrati e giustificati dall’economia del racconto). In mezzo c’è Najmeh, che capisce le ragioni delle ragazze ma vorrebbe anche proteggere il marito e aiutarlo di fronte ai suoi dilemmi morali.

Facendo di necessità virtù (la proibizione di fare film costringe Rasoulof a girare quasi completamente in interni; la necessità di ridurre al minimo il cast per ragioni di sicurezza stimola soluzioni ingegnose, come le sagome che «popolano» gli uffici del tribunale) e calibrando sapientemente il peso delle parole, il film mostra l’involuzione di Iman che timoroso di perdere i privilegi acquisiti accetta sempre più la logica repressiva (e le giustificazioni) del potere e insieme la radicalizzazione delle figlie che smontano i vaneggiamenti del padre, arrivato a definire chi protesta «un gruppo di scostumate che vogliono camminare nude per strada». Così, quando una mattina, Iman non trova più la sua pistola, si convince che gli sia stata rubata da una delle figlie. Arrivando a farle interrogare (senza ottenere nulla) dall’amico.

Ad aumentare poi i vaneggiamenti del genitore, arriva la pubblicazione sul web del suo nome e del suo indirizzo, come uno dei responsabili della repressione. Per questo si nasconderà nella vecchia casa dei suoi, in un paesino semiabbandonato, dove la sua paranoia porta il film verso la tragedia e dove la metafora del fico sacro, che cresce sui rami di altri alberi arrivando a poi a soffocarli, si colora di nuove, dolorose verità.

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