L’economia delle tasse: un libro spiega perché in Italia sono inique e qual è la ricetta per battere l’evasione (che esiste fin dai Sumeri)

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Davvero la flat tax “si autofinanzia“? Aumentare l’imposta sulle successioni, che oggi in Italia è da paradiso fiscale, equivarrebbe a tassare due volte chi trasmette il patrimonio oltre ad affossare la crescita? I condoni sono una soluzione indolore per raccogliere gettito? E, al netto delle vecchie promesse elettorali, alzare le accise sul diesel per riallinearle a quelle sulla benzina come intende fare il governo è una buona scelta? La risposta a tutte e quattro le domande intorno a cui i partiti si accapigliano è no, spiega Alessandro Santoro nel nuovo L’economia delle tasse – Cosa sono e come dovrebbero cambiare (il Mulino, 2025). La materia fiscale è delicata e esposta alla tifoseria politica, ma leggere ogni misura solo con le lenti delle preferenze elettorali rischia di far perdere di vista i fondamentali. Ovvero, come ricorda nell’introduzione, che le tasse “sono un elemento centrale nel rapporto tra cittadino e Stato democratico e del contratto sociale” in base al quale ognuno rinuncia a una porzione di reddito e ricchezza per ottenere in cambio di servizi pubblici come sanità, istruzione, giustizia. Motivo per cui è opportuno chiedersi come funzionano, perché sono disegnate in un certo modo “e se vi possono essere alternative preferibili“.

Santoro, ordinario di Scienza delle Finanze all’università di Milano-Bicocca, ha fatto parte del comitato di gestione dell’Agenzia delle Entrate e guidato la commissione che prepara ogni anno la Relazione sull’evasione fiscale e contributiva. In qualità di esperto, collabora con il Fiscal Affairs Department del Fondo monetario internazionale. Esperienze che nel libro distilla in un’analisi per non addetti ai lavori su come si tassano lavoro, redditi da capitale, patrimoni, consumi e profitti e come si applicano e amministrano le imposte. Con due chiavi di lettura: da un lato l’efficienza, dall’altro l’equità. Spesso tra i due obiettivi c’è un trade off, cioè bisogna scegliere. La ricerca dell’efficienza potrebbe suggerire di non tassare i redditi da capitale quanto quelli da lavoro per evitare che gli investimenti finanziari “fuggano” in Paesi più amichevoli, o di ridurre l’imposta sul reddito per non rischiare che i contribuenti siano indotti a lavorare meno con impatti negativi sul gettito. Mentre una preferenza per l’equità farebbe optare per una base imponibile unica che comprenda tutte le tipologie di reddito e un elevato grado di progressività per assicurarsi che i ricchi paghino una quota di imposte più alta di quella di chi ha redditi bassi.

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Trovare un equilibrio spetta alla politica, sulla base – almeno in teoria – delle preferenze degli elettori e della loro avversione (o meno) alla disuguaglianza. L’analisi economica può facilitare il compito: studi recenti, ricorda Santoro, mostrano per esempio come progressività ed efficienza non siano in contrasto come si pensava e la forte concentrazione dei redditi nelle mani di pochi al vertice della piramide renda razionale un aumento delle aliquote sui redditi più alti. E ancora: una base imponibile che tiene dentro sia il reddito da capitale sia quello da lavoro può rivelarsi non solo più equa, ma anche più efficiente rispetto alla soluzione opposta se si considera che quest’ultima incentiva a “truccare” redditi da lavoro come i compensi dei manager da redditi da capitale per godere di un minor carico fiscale.

Messaggi che il governo italiano in carica – come i precedenti – non ha colto. Nonostante la nostra Irpef, svuotata da una moltiplicazione di deduzioni, detrazioni e da una pletora di regimi sostitutivi di cui la flat tax al 15% è solo l’ultimo esempio, sia ormai sia iniqua sia inefficiente. E la sua “apparente progressività” nasconda, scrive Santoro, la realtà di un sistema che “diventa regressivo nella parte alta della distribuzione“, per cui in cima alla piramide “l’aliquota media effettiva si riduce all’aumentare del reddito”.

Denso il capitolo sull’evasione, fenomeno vecchio quanto la civiltà se è vero che “una tavoletta cuneiforme sumera del XIX secolo a.C. narra di un commerciante imprigionato per aver ricevuto merce contrabbandata in frode allo Stato“. Santoro mette in fila le cause prima di arrivare ai possibili rimedi, a partire dall’incrocio massivo dei dati attraverso algoritmi di machine learning per arrivare a una mappatura del rischio fiscale. Attività – di cui il quinto capitolo offre anche un esempio di utilizzo – che in Italia è stata a lungo limitata da resistenze del Garante della privacy sulla concreta applicazione e oggi viene condotta ma con esiti non noti. L’altra “gamba” fondamentale, accanto ai controlli fiscali chiamati a garantire la necessaria deterrenza, dovrebbe essere l’efficienza della riscossione. Cioè il passaggio in cui lo Stato incassa effettivamente i crediti vantati. Su questo fronte la situazione italiana è drammatica, con un rapporto tra tasse dovute e non riscosse che è quasi il doppio rispetto a quelle riscosse: tra i Paesi sviluppati solo la Grecia fa peggio.

Senza una svolta, che la riforma approvata dal governo non pare prefigurare, il sistema non può stare in piedi. Perché “è inutile fare controlli che portano a definire enormi importi di imposta evasa che poi non viene riscossa”. Piccolo corollario a beneficio della maggioranza: il continuo ricorso a condoni è “il contrario di una riscossione efficiente”. Diversi studi hanno fatto emergere risultati “sconfortanti”, con effetti negativi non solo sul medio periodo – condoni ripetuti inducono anche una parte degli onesti a evadere – ma anche sul breve: perché aderire, se l’anno prossimo arriverà una sanatoria ancora più conveniente?



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