“Non c’è la prova che abbia mai giocato il sistema”

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Aveva dato dieci euro alla cassiera per comperare una quota del sistema a quote per il Superenalotto, ma la barista aveva pensato che volesse pagare delle consumazioni. Quel sistema aveva centrato l’estrazione, con un montepremi di oltre 65 milioni di euro (uno delle prime vincite milionarie) che aveva reso felici molti eugubini, ma non il giocatore che era rimasto escluso per una incomprensione alla cassa.

Dopo 14 anni la Corte d’appello di Perugia ha messo un altro tassello verso la definizione delle vicenda, ritenendo che “non era sufficiente a provare la partecipazione ad una giocata vincente del Superenalotto la consegna alla cassiera di una banconota da dieci euro, ricevendone il resto, affermata da alcuni testimoni, in assenza di ulteriori prove che circostanziassero ulteriormente il gesto, in quanto da tali elementi non era possibile desumere inequivocabilmente che tale denaro fosse stato dato per partecipare al sistema vincente, posto che in quel bar operavano, oltre alle giocate individuali, due diversi sistemi di gioco e che poteva in ogni caso trattarsi di somma data a titolo di pagamento di una consumazione”.

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Il giocatore escluso dalla vincita, assistito dagli avvocati Fabio Antonioli e Maurizio Lorenzini, si era subito rivolto al Tribunale civile di Perugia, citando in giudizio gli altri 90 partecipanti al sistema, assistiti dagli avvocati Edoardo Maglio e Paola Caruba, reclamando una parte delle vincita: per la precisione 650mila euro. Secondo il giocatore “tale somma” gli era “dovuta” in “forza di un mandato senza rappresentanza sorto a seguito della sua partecipazione ad un sistema di gioco, ideato e gestito” da uno dei vincitori.

Il giudice di primo grado aveva rigettato la domanda risarcitoria ritenendo che il giocatore non avesse dimostrato “la fonte del proprio diritto alla partecipazione alla vincita del 22 settembre del 2011” per la cifra di 65.040.000 milioni di euro. Facevano appello gli eredi, essendo il giocatore deceduto, presentando “un unico motivo di doglianza”: quello dell’errore nell’applicazione del ragionamento logico-inferenziale proprio della prova presuntiva.

Il giorno prima della vincita, secondo gli eredi, il giocatore “aveva consegnato nelle mani della persona addetta alla riscossione del denaro per la giocata, la somma di 10 euro, ricevendo del denaro come resto”. Un fatto che “permetterebbe di dedurre che la somma consegnata era destinata alla partecipazione al sistema” della giocata vincente e che avrebbe, quindi, avutyo diritto alla propria quota.

I giudici di appello, però, hanno ritenuto “pienamente condivisibili le conclusioni a cui è giunto il giudice di prime cure”. In primo luogo l’esistenza del sistema di gioco “è pacificamente ammessa dalla parti” e “dimostrata dalla scrittura notarile” che attesta la spartizione della vincita del 22 settembre del 2011. Il sistema consisteva nella partecipazione alle tre estrazioni settimanali, per un valore di 400, “ognuna delle quali suddivisa in 100 quote da 4 euro ciascuna”. Per partecipare alle estrazioni era “necessario acquistare uno o più quote della relativa giocata”. Il contratto di mandato, e l’acquisizione del diritto alla ripartizione, era condizionato all’acquisto delle quote, tramite versamento del corrispettivo. I ricorrenti hanno sostenuto, come il giocatore in precedenza, che la prova “del versamento delle propria quota sia desumibile” dalle testimonianze delle persone che avrebbero assistito alla consegna dei 10 euro alla cassiera, “deputata alla raccolta delle quote il giorno prima della vincita”.

Per i giudici, invece, “da tali dichiarazioni testimoniali non può dedursi la partecipazione” del giocatore “alla giocata vincente, in quanto l’invocata presunzione è del tutto priva di carattere dell’univocità che, per costante interpretazione, deve connotare il rapporto tra il fatto noto e quello ignoto da provare”. Il ricorso alla prova presuntiva, quindi, “è ammissibile solo in presenza di presunzioni “gravi, precise e concordanti”, laddove il requisito della “precisione” è riferito al fatto noto, che deve essere determinato nella realtà storica, quello della “gravità” al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto desumibile da quello noto, mentre quello della “concordanza”, richiamato solo in caso di pluralità di elementi presuntivi, richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi, precisi e univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza”.

In questo caso, quindi, il “fatto noto, costituito dalla dazione di denaro” non “consente di giungere, quale unica conseguenza logica, alla dimostrazione” che il giocatore “abbia partecipato alla giocata del sistema poi rivelatasi vincente”, anche perché non è stata prodotto “alcuna prova documentale dell’avvenuto acquisto della quota”, nonostante alcuni testi hanno precisato che “il titolare rilasciasse in genere una ricevuta e in altre occasioni “una fotocopia” della giocata, con i numeri giocati e il timbro della ricevitoria. Non è emersa, inoltre, la partecipazione in precedenza dell’uomo al sistema. Solo un teste ha ricordato che nel 2001, cioè dieci anni prima, “gli avrebbe parlato di un blocchetto degli assegni con il quale egli avrebbe pagato una quota”. Quanto ai 10 euro consegnati alla cassiera, nessuno ha mai saputo dire se erano per la quota o per una consumazione. Mai provato anche a quale sistema di gioco volesse partecipare l’uomo, essendovi in quel bar-ricevitoria ben due sistemi: il rosso e il blu (che poi era quello vincente). Se anche fosse plausibile che i 10 euro fossero per la giocata, scrivono i giudici, risulta impossibile stabilire per quale dei due sistemi fossero stati consegnati.

La sentenza, quindi, “appare immune dal vizio denunciato e per tale ragione” viene confermata, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali delle controparti.

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