Dai gamberetti rosa al forno a microonde: gli effetti sulla salute delle microplastiche

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Ogni settimana ciascuno di noi, di media, mangia 5,5 grammi di plastica, l’equivalente di una carta di credito. Questa stupefacente conclusione è basata sui risultati scioccanti di uno studio dell’Università di Newcastle, che nel 2019 aveva combinato i risultati di 50 ricerche diverse. Il Wwf aveva dato ampia risonanza ai risultati, tanto che l’immaginifica visione della carta di credito ingerita ogni settimana, o l’analogo quantitativo sotto forma di 50 borse di plastica mangiate ogni anno, erano finiti su giornali e televisioni in tutto il mondo.

Sia l’equivalente della carta di credito un dato preciso o una leggera esagerazione poco importa: in tutte le parti del mondo siamo inglobati in una marea di piccoli frammenti della grandezza di circa 5 millimetri o meno, fino a pochi micrometri, che si formano dalla dissoluzione dei materiali plastici. Di fatto, la plastica non è un prodotto naturale ma un polimero sintetico, inesistente fino a 100 anni fa. Oggi le microplastiche sono dappertutto: sulle montagne incontaminate, dentro gli abissi degli oceani, nelle nevi dell’Artico. Derivano dalle confezioni alimentari, dagli pneumatici, dai vestiti, dalle tubature dell’acqua, e da lì si diffondono nell’aria che respiriamo, nell’acqua del rubinetto, nel sale da cucina e nei cibi che mangiamo. Le microplastiche sono la conseguenza dei 92 miliardi di tonnellate di plastiche non riciclabili prodotte tra il 1950 e il 2017, di cui più della metà in questo millennio, e meno di un terzo delle quali è ancora in uso. Di quelle dismesse, circa l’80% è stato seppellito nel terreno, ma da lì ha trovato la maniera di disperdersi nell’ambiente. Soltanto l’8% è stato riciclato.

La ricerca sugli effetti inquinanti delle microplastiche è esplosa nell’ultimo decennio. Avevano cominciato a lanciare l’allarme una serie di studi che avevano analizzato la presenza di microplastiche nei pesci e negli altri animali marini che normalmente vengono usati per l’alimentazione. Una ricerca pubblicata l’anno scorso aveva analizzato pesci e molluschi della costa occidentale degli Stati Uniti: 180 dei 182 campioni analizzati contenevano microplastiche sotto forma di fibre, frammenti e film. Tra le specie analizzate, i gamberetti rosa, che si nutrono filtrando l’acqua alla superficie del mare, mostravano la concentrazione più elevata di particelle. Il salmone rosso dell’Alaska era il meno contaminato.

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Un altro studio ha riportato come pagliuzze microscopiche di plastica vengono rilasciate in grande quantità dai recipienti di plastica quando questi vengono riscaldati nel forno a microonde. Se il cibo in questione è una formula di latte per neonati sciolta in acqua calda dentro una bottiglia di plastica, significa che il bambino finisce per ingoiare più di un milione di particelle di plastica microscopiche ogni giorno. Se il bambino pesa 10 kg, ingerisce quasi un terzo di una carta di credito ogni settimana.

Al di là dell’ambiente, un problema centrale è quello di capire se queste microplastiche siano dannose per la salute. A marzo dello scorso anno, uno studio pubblicato su Nature a firma di un team di ricercatori dell’Università di Caserta aveva analizzato le placche di aterosclerosi rimosse chirurgicamente dalle carotidi di 257 giovani persone. Osservando queste placche al microscopio elettronico, i ricercatori avevano trovato particelle di microplastiche in 150 dei partecipanti allo studio.

La maggior parte delle particelle era costituita da polietilene, la plastica più utilizzata al mondo e presente nelle confezioni di cibo e nelle borse per gli acquisti, o da Pvc, utilizzato nelle tubature, nelle porte e finestre, nelle bottiglie e nelle carte di credito appunto. Il dato più allarmante era che gli individui che contenevano plastica nelle loro placche erano anche quelli più a rischio di sviluppare un infarto o un ictus nei tre anni successivi.

Una ricerca pubblicata sempre da Nature questa settimana ci mostra come queste microplastiche si diffondono nell’organismo. Un gruppo di ricercatori dell’Università di Pechino ha impiantato l’obiettivo di un microscopio su una finestra trasparente a contatto con il cervello nei topi. Poi, ha aggiunto nell’acqua degli animali delle sferette fluorescenti di polistirene. Tre ore dopo, le sferette erano già apparse nei vasi sanguigni del cervello, trasportate dai globuli bianchi che le avevano fagocitate nell’intestino. In alcuni topi, le particelle erano persistite fino a 4 settimane intrappolate nei piccoli capillari della corteccia cerebrale. Il rischio di bloccare la microcircolazione e causare microtrombi è evidente.

Nel novembre dello scorso anno i leader di Paesi del G20, in riunione a Rio de Janeiro, avevano espresso la volontà di lavorare insieme per raggiungere un accordo che limiti l’inquinamento da plastica, e quasi un centinaio di Paesi hanno già bandito le borse della spesa in questi materiali. Ma il Paese che genera più plastica pro-capite al mondo sono gli Stati Uniti, e nell’attuale clima politico dell’era trumpiana è oggettivamente difficile sperare in una sensibilità su questo problema. —



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