Dietro le nuove guerre africane

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Ogni unità dell’M23 è supervisionata e appoggiata dai corpi speciali delle Forze di difesa ruandesi» denuncia il rapporto al Consiglio di sicurezza dell’Onu del 27 dicembre riferendosi ai ribelli congolesi del Movimento 23 marzo, che si stavano preparando a una clamorosa offensiva. La squadra di esperti che monitora la situazione sul campo denuncia che «almeno tremila-quattromila soldati ruandesi sono rimasti dispiegati nei territori di Nyiragongo, Rutshuru e Masisi», nella zona orientale della Repubblica democratica del Congo (RdC).

Non solo: «La gestione di armamenti ad alta tecnologia da parte dell’esercito ruandese sono stati fondamentali per la conquista di nuovi territori». I ribelli, grazie all’aiuto diretto di Kigali, che smentisce seccamente, sono entrati, a fine gennaio a Goma, il capoluogo strategico della provincia del Kivu Nord, riaccendendo il conflitto in Congo. Negli ultimi 30 anni, guerre a fasi alterne hanno provocato sei milioni di morti. Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore italiano ucciso vicino a Goma nel 2021, non ha mezze misure nella sua denuncia: «Il Ruanda, uno Stato piccolo come la Lombardia invade una nazione otto volte più grande dell’Italia, ma prestiamo scarsa attenzione non essendo in Europa come l’Ucraina. E chi arma Kigali? Lo stesso Occidente, a tal punto che l’M23, a livello bellico, è meglio equipaggiato dei Caschi blu». In RdC è dispiegata la più longeva, numerosa (oltre 10mila uomini) e disastrosa missione delle Nazioni Unite. Il presidente congolese, Félix Tshisekedi, la definisce «un fallimento durato oltre un quarto di secolo». Fra massacri inenarrabili, altri Stati africani coinvolti oltre il Ruanda e il braccio di ferro di Stati Uniti e Cina, il conflitto dall’est del Congo rischia di espandersi in una devastante guerra regionale. Non solo: poco più a Nord, la guerra civile in Sudan è «la peggiore crisi umanitaria nel mondo», secondo l’Unione africana, con 12.510.544 profughi (tre milioni fuggiti al Sud o in Chad) e 28 mila morti.

Pure questo scenario nasconde interessi di potenze piccole e grandi. Il 27 gennaio i ribelli dell’Alleanza del fiume Congo guidati dall’M23 sono entrati a Goma, capoluogo del Kivu Nord, un milione di abitanti e 700 mila sfollati. Sultani Makenga è il capo militare, che controlla un territorio di diecimila chilometri quadrati. Il Movimento 23 marzo nasce nel 2012 dall’ammutinamento di un gruppo militare che doveva essere integrato nell’esercito congolese. «Tutto è cominciato con il genocidio in Ruanda nel 1994 da dove sono scappati due milioni di hutu compresi gli squadroni della morte e l’esercito governativo che aveva massacrato i tutsi. È un conflitto endemico da allora» riassume a Panorama, Anna Bono, esperta dell’Africa. La presa di Goma è costata 2.900 morti, secondo l’Onu. Vivian van de Perre, numero due della missione dei caschi blu Monusco, ha rivelato che «alcune centinaia di donne detenute» nella prigione locale «sono state tutte stuprate» e arse vive nell’incendio della sezione femminile. Il Kivu Nord ha un’importanza economica strategica per le sue ricchezze minerarie a cominciare dal coltan fondamentale per cellulari, computer e missili. L’area detiene fra il 60 e l’80 per cento delle riserve mondiali di questa miscela di columbite-tantalite. L’M23 ha conquistato il sito di Rubaya, il più vasto del mondo per l’estrazione del coltan, il 30 aprile dello scorso anno. Foto satellitari dell’Onu mostrano i punti di carico sui camion, diretti verso il Ruanda, di 120 tonnellate di minerale al mese. La «tassa» incassata dall’M23 varia fra i quattro e sette dollari al chilogrammo, che ammonta ad una media di 800 mila dollari al mese, una cifra significativa per quelle latitudini. «Le ragioni del conflitto sono molteplici a cominciare dalle tensioni etniche, ai numerosi gruppi armati presenti nella regione (un centinaio, ndr), al ruolo dei Paesi confinanti come Ruanda e Uganda. Una componente è legata alla politica interna congolese: l’ala politica dell’M23 vorrebbe arrivare fino a Kinshasa, la capitale. «Il fattore preponderante, al quale tutti questi eventi sono connessi, è il controllo del territorio e delle sue ricchezze» evidenzia con Panorama, Marco Doneda, vice capo missione della Ong Medici senza frontiere a Goma. Il presidente del vicino Burundi, Évariste Ndayishimiye, ha inviato le sue truppe per appoggiare il governo, come Tanzania, Malawi e Sudafrica, e sostiene che «se il Ruanda continua a conquistare territori in un altro Paese (la Repubblica democratica del Congo, ndr) la guerra prenderà una dimensione regionale». A Goma l’esercito congolese si è dissolto, con la fuga dei comandanti, mentre 300 contractor rumeni, che davano man forte, sono stati disarmati dai ribelli che li hanno scortati in Ruanda.

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Il presidente e padre-padrone ruandese, Paul Kagame, che ha portato i tutsi alla riscossa dopo il genocidio del 1994, è riuscito a trasformare il Paese nella Prussia africana. Stati Uniti, Francia e Belgio, pur condannando l’M23, non hanno mai imposto sanzioni a Kigali. L’Unione europea ha stretto accordi minerari e infrastrutturali con Kagame e garantito 40 milioni di euro alle sue truppe per combattere l’insorgenza jihadista nel nord del Mozambico ricco di risorse energetiche. In questo scacchiere la Cina è stata scalzata dagli Stati Uniti, che assieme al G7, punta sul «corridoio di Lobito», un’infrastruttura cruciale, pure per il piano Mattei, che trasporterà le risorse minerarie congolesi (stimate in 24 mila miliardi di dollari) attraverso Zambia e Angola, fino all’oceano Atlantico, evitando il Ruanda. Poco più a nord, il Sudan è travolto da un sanguinoso conflitto civile dal 2023 fra l’esercito governativo del generale Abdel Fattah al-Burhan e il suo ex vice, Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, che guida le Forze di supporto rapido (Rsf), gruppo paramilitare istituzionalizzato nel 2013. «Non c’è Stato al mondo con il più alto numero di persone a rischio come il Sudan. Dopo 22 mesi di guerra le linee del fronte sono attive come il primo giorno ed entrambe le parti non hanno il minimo rispetto per i civili, gli ospedali e il personale umanitario.

Per la prima volta in cento anni si combatte anche a Khartum, la capitale» sottolinea Vittorio Oppizzi, responsabile dei programmi sudanesi di Msf. In gennaio i governativi hanno riconquistato la strategica città di Wad Madani, 200 chilometri a sud-est di Khartum.Uno snodo di autostrade, che collega diverse regioni contese, da dove potrebbero venire tagliate le linee di rifornimento dei ribelli verso la capitale. Hemedti ha commentato «abbiamo perso una battaglia, non la guerra», ma è arrivato il colpo di coda di Joe Biden. Il 7 gennaio gli Usa hanno imposto sanzioni contro il capo dei ribelli e sette società delle Rsf negli Emirati Arabi Uniti. Lo Stato arabo nega, ma ci sono pochi dubbi sulle forniture di armi ai ribelli. Nel 2022 Abu Dhabi aveva incrementato gli investimenti in Sudan a sei miliardi di dollari per la costruzione del porto di Abu Amama, un’alternativa allo storico Port Sudan. La posta in gioco sono i 600 chilometri di coste sudanesi sul Mar Rosso, che interessano anche ad altri Paesi del Golfo come l’Arabia Saudita. E non è un caso che l’Iran si sarebbe accordato per la fornitura di droni all’esercito governativo. Il 16 gennaio, quattro giorni prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca che potrebbe cambiare le carte in tavola, Biden ha sanzionato pure il generale Al-Burhan per le atrocità compiute dalle sue truppe che avrebbero utilizzato armi chimiche. «Le sanzioni sul terreno non hanno un reale impatto. La crisi in Sudan rimane dimenticata. Manca la volontà politica internazionale per arrivare ad un accordo. Gli stessi aiuti umanitari sono ben al di sotto degli effettivi bisogni» spiega Oppizzi di Msf. Come in Congo la guerra viene finanziata dalle ricchezze del sottosuolo. Il Sudan è il 16esimo Stato al mondo per l’estrazione di oro. Gran parte delle miniere sono controllate dalle Rsf, che rivendono il metallo prezioso sui mercati internazionali, attraverso Dubai. A fianco dei ribelli opera l’Africa Corps, i russi dell’ex Wagner, e dall’altra parte della barricata ci sarebbero le unità Timur dell’intelligence di Kiev. «Di fatto è impossibile evitare questi sanguinosi conflitti» ammette Anna Bono. «Scoppiano o riesplodono per il controllo delle ricchezze del territorio e anche per la gestione degli aiuti e interessi stranieri».

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