A partire dal Dopoguerra, Europa occidentale e Giappone hanno goduto per decenni di un grado invidiabile di sicurezza e di pace, pur devolvendo una cifra irrisoria alle spese militari. A proteggerli era il potere di deterrenza della macchina militare americana.
Che all’epoca imponeva agli alleati un notevole costo politico ma un prezzo economico molto contenuto. Il costo politico era misurato dal cosiddetto fattore K: l’impossibilità tassativa che un partito o movimento d’ispirazione comunista si avvicinasse ai centri del potere, fosse anche attraverso libere elezioni. In compenso, alle imprese e ai capitali era permesso muoversi con ampia autonomia nei mercati globali, al punto che i maggiori rivali degli Stati uniti si ritrovarono ad essere Germania e Giappone, smilitarizzati dopo la guerra e perciò liberi dall’onere di spese militari inutilmente gravose.
La liberalità della superpotenza nasceva dall’intento di estendere la propria egemonia a livello planetario, legandola all’apertura dei mercati e all’esportazione della democrazia liberale: un progetto di «nuovo ordine globale» oggi archiviato, cui si va sostituendo l’idea di un mondo diviso in grandi spazi continentali, ciascuno consegnato a una singola potenza dominante.
Nei piani americani, il rapporto con l’Europa dovrebbe evolversi in consonanza con questo cambio di paradigma. L’egemonia benevola dovrebbe lasciare il posto a un vassallaggio esplicito, che preveda un costo salato per la protezione militare e una subordinazione sistematica ai colossi finanziari e tecnologici statunitensi. Non è un ordine, almeno per ora, ma una proposta a cui l’Europa può dire di sì o di no. Data però l’enormità della posta in palio, è bene avere le idee chiare sulle condizioni e sui rischi impliciti nell’una o l’altra scelta.
Va osservato, in primo luogo, che l’aumento delle spese militari è compatibile di fatto con entrambe le opzioni. Cambiano però le dimensioni e il senso dell’eventuale aggravio di spesa. L’ipotetico raddoppiamento della spesa militare richiesto dall’amministrazione Trump non prevede una maggiore autonomia dei paesi europei, ma l’esatto contrario. Si pagherebbe per ratificare la propria dipendenza, impegnandosi ad assecondare ogni futura decisione della potenza dominante non solo in campo militare ma anche energetico e tariffario. Costrette a ridimensionare l’export o persino a spostare gli impianti negli Stati uniti per tamponare la deindustrializzazione americana (esasperando così quella di casa nostra), le imprese europee non avrebbero altra via per salvare i profitti che comprimere i salari e accentuare la corsa alla privatizzazione delle risorse. Una ricetta autoritaria per la quale l’amministrazione Trump ha già riconosciuto nelle nuove destre radicali il candidato ideale.
L’opzione alternativa è riorganizzare e potenziare la difesa per acquisire un’effettiva autonomia strategica. Si tratterebbe, per citare Mario Draghi, di imparare ad agire «come un unico Stato», coordinando le spese militari e affidandole a un titolo di debito comune, per acquisire un peso adeguato nell’alleanza atlantica e ottenere così una libertà di scelta paragonabile almeno a quella di potenze intermedie come l’India o la Turchia.
Va ricordato che, già quest’anno, la spesa militare complessiva dei paesi europei ha largamente superato i trecento miliardi: quanto la Cina, quindi, e circa il doppio della Russia. Se non fosse diluito fra trenta eserciti distinti e separati, un simile impegno di spesa potrebbe già bastare a garantire una deterrenza difensiva. Non è insomma l’eventuale aumento il vero scoglio, ma l’assenza di coordinazione, il che porta a galla le debolezze strutturali dell’Unione. In questioni di guerra e di pace, è difficile agire «come un unico Stato» senza disporre di un’autorità politica legittima, procedure di decisione efficaci e trasparenti, una visione condivisa dell’interesse comune. Ed è improbabile che decolli un debito comune senza una regolamentazione ragionevole dei rapporti fra creditori e debitori e un’armonizzazione dei diversi sistemi fiscali.
Per aspirare a un’autonomia strategica, insomma, l’Europa dovrebbe mettere mano alle riforme strutturali in senso federalista che da decenni le maggiori forze politiche dicono di volere ma che, di fatto, non hanno mai avviato. E dovrebbe farlo in tempi stretti, in condizioni di emergenza e con l’aperta ostilità dell’alleato atlantico.
Ciò che più sconcerta è l’ostinata convinzione che un passo tanto arrischiato possa marciare a colpi di austerità, lacrime e sangue, rinunciando a priori a ogni coinvolgimento della società civile e regalando la protesta popolare a quei sovranismi nazionalisti che di un tale programma sono i diretti avversari. Tutto suonerebbe più credibile se l’appello all’orgoglio europeo si legasse a una lotta alle disuguaglianze, all’immunità fiscale dei grandi patrimoni e allo strapotere degli oligopoli finanziari. Se una risposta unitaria all’emergenza abitativa restituisse vitalità ai centri storici delle città europee, anziché farne dei parchi di divertimento per turisti. Se l’esercito di giovani ricercatori iperqualificati, di cui l’Europa dispone, fosse mobilitato per una rivoluzione creativa, anziché languire nel precariato perenne. Per tutto questo occorrerebbe però qualcosa di cui l’Europa al momento è sprovvista: una classe dirigente, e non un semplice apparato di comando. In sua assenza, non resterà altra opzione che la sottomissione supina all’amministrazione americana di turno, quali che ne siano le condizioni.
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