Opposizioni all’attacco, ma Meloni non rinuncia al suo intervento

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Lo chiedono tutti dagli spalti dell’opposizione, con Elly Schlein in testa. Dopo il saluto nazista di Steve Bannon dal palco della convention dei Conservatori a Washington, la premier italiana, il cui intervento in video è previsto per le 18 ora italiana di oggi, deve ripensarci e dare forfait. «Si sta dimostrando una vassalla di Trump. Abbia la decenza di dissociarsi da questo raduno neofascista», tuona la segretaria del Pd e ad accompagnarla c’è un coro foltissimo, da Calenda a Avs, da Iv a + Europa. Nel quale per la verità spicca un’assenza: quella di Giuseppe Conte. I diversamente trumpiani del M5S non vedono motivo per suggerire alla premier di cestinare il video e il particolare basta a segnalare quanto enorme sia la grana a sinistra.

Del resto persino Jordan Bardella, il leader lepenista del Rassemblement National, di fronte all’evocazione del Sieg Hail ha ritenuto più opportuno cancellare la comparsata fissata per oggi. Ragion di più perché anche Giorgia Meloni passi la mano. O è «più a destra di Bardella e Le Pen», come ruggisce il Pd Benifei? In realtà la situazione del francese e quella della cugina italiana sono sensibilmente diverse. Il partito di Marine Le Pen è la formazione della destra europea meno incline al civettamento con Trump, non a caso la più tiepida nel complimentarsi con il vincitore nella notte del trionfo. Non è questione di distinzioni politiche ma di grandeur, con quel tanto di sciovinismo che in Francia manca di rado. Chi è questo yankee che pensa di poter fare il capo anche in Europa e quindi in Francia? Sulle allusioni al nazismo, che vangano da Bannon, da Musk o dalla AfD tedesca, poi, Le Pen è rigida come lo è il suo elettorato. È stata lei a pretendere l’espulsione del partito di Alice Weidel mesi fa ed è lei, oggi, a puntare i piedi di fronte alla richiesta di Orbán di riammetterlo. Evitare il viaggio a Washington, per Bardella, non è insomma un gran sacrificio. Meloni batte un’altra strada, quella che spera porti l’Italia a diventare referente privilegiato della Casa Bianca nel Vecchio Continente. Figurarsi se intende macchiarsi di un simile sgarbo.

A ripensarci Giorgia Meloni non ci pensa per niente. Quello di Bannon era un saluto, certo, ma nazista proprio no, argomentano a palazzo Chigi. Senza contare che in quel raduno il truce Steve è solo uno tra i tanti e non è certo lui a connotare l’affollato meeting. Quanto all’argomentazione secondo cui la carica istituzionale dovrebbe proibire la videocomparsata alla premier «di una repubblica fondata sull’antifascismo», la suddetta premier neanche la prende in considerazione. Sarà lì in veste di capopartito, fa spiegare, non di capo del governo. Anche per questo le si seccherà la lingua prima che pronunci la parola Ucraina o, peggio, prima che sillabi il nome di Zelensky. Parlerà invece dei valori comuni che accostano le due sponde dell’Atlantico, si riconoscerà nella nobile causa dei conservatori di tutto il mondo, Dio Patria e Famiglia, niente di più.

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Il braccio teso di Bannon, nonostante il gran fragore che ha provocato, non è un grosso problema per la premier. Magari i guai fossero tutti come questo. Il problema serio è che la banda Trump sembra mirare a Zelesnky con il preciso obiettivo di toglierselo di torno, in esilio a Parigi e non lo si nomini più. L’amico Elon come al solito strafà. Dà al presidente considerato sino a ieri da Washington l’eroe per eccellenza addirittura del «dittatore che si nutre dei cadaveri dei suoi soldati». Meloni sino a questo punto non può spingersi. Va bene rovesciare come un guanto le posizioni per quanto riguarda l’oggi e il domani, dalla sacra integrità territoriale dell’Ucraina alle «garanzie di sicurezza» per quel che dell’Ucraina resterà.

Ma su Zelensky o sulle responsabilità tutte e solo russe non c’è revisione possibile: lunedì, terzo anniversario dell’invasione, palazzo Chigi sarà per 24 ore illuminato con i colori della bandiera ucraina. La formula ufficiale sarà «Non resa ma pace giusta», senza cavillare su cosa significhi in concreto. Ma se la testa di Zelensky diventasse elemento centrale dell’accordo, cioè se fosse questa una delle condizioni poste da Putin, la faccenda per Meloni diventerebbe molto più spinosa.



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