«Per salvare il pentito, mi hanno condannato»

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L’ex ministro Landolfi a Stylo24: «Il mio processo è macchia indelebile sulla magistratura italiana: serve una riforma vera della giustizia»

«La legge è uguale per tutti». Una frase che tutti conosciamo bene e che troviamo in ogni aula di tribunale in Italia e che esprime un’alta concezione della Giustizia che dovrebbe garantire parità di trattamento a tutti gli imputati, al di là dello status sociale e della provenienza. Ma, purtroppo, non sempre è così. È l’amara constatazione che emerge dopo la lettura delle carte processuali sul caso del già ministro Mario Landolfi, una vita dedicata alla politica, cancellata dalle accuse (documentalmente smentite) di un collaboratore di giustizia e tuttavia sfociate in una sentenza che, sebbene elimini l’aggravante mafiosa, lascia basiti tanto è lacunosa, illogica, contraddittoria. «Anche i magistrati dovrebbero essere uguali per tutti. Che lo sia solo la legge non serve a nulla», afferma con amarezza Landolfi in un’intervista concessa a Stylo24.

Un caso dimenticato, il suo, ma tornato d’attualità in questi giorni grazie al libro-inchiesta di Luca Maurelli dal titolo «Anatomia di un’ingiustizia – Il processo a Mario Landolfi» pubblicato da Guida Editori. A dispetto delle «sole» 220 pagine, il libro è la sintesi di una fatica vera, consistita nello studio e nell’assemblaggio di migliaia dí documenti relativi ad un procedimento durato ben 16 anni. Ne viene fuori un libro scorrevole, lontano anni luce dai copia-incolla che solitamente affollano i libri di «giudiziaria». La sensazione, una volta letto, è quello di voler scendere in piazza e reclamare una vera riforma della giustizia.

Luca Maurelli e la copertina del libro «Anatomia di un’ingiustizia»

Denunciare le ingiustizie

«Penso che i tempi per farla siano maturi. E mi piace pensare che il libro di Maurelli possa dare una piccola spinta in tal senso. È vero che parla di un singolo caso ma, come spiega nella sua prefazione Alessandro Barbano, “contiene tutte le patologie del sistema giudiziario italiano, di cui però nessuno parla nel dibattito pubblico e politico”. Penso ci sia poco da aggiungere all’analisi di Barbano», spiega Landolfi.

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«Mi rendo conto che altri hanno subito conseguenze che non mi hanno neanche sfiorato, con ingiustizie ben più gravi, specialmente sotto il profilo della perdita della libertà personale e di altri diritti fondamentali, che per fortuna io non ho subito. Anche per questo, penso, Maurelli ha voluto ricordare una frase di Ho-Chi-Minh: “Urlino tutte le ingiustizie del mondo!”. Un modo per sottolineare che, grandi o piccole, le ingiustizie si somigliano tutte e vanno tutte denunciate. Nel mio processo ne ho subite tante, a cominciare dalle lungaggini per finire al travisamento e persino alla manipolazione delle prove».

«Per condannarmi a due anni per la corruzione di un consigliere comunale in una ridicola vicenda di paese ci sono volute due Camere di Consiglio, la prima delle quali durata sei ore. Al termine della prima, durata sei ore, i giudici hanno emesso non la sentenza, ma un’ordinanza ex-Art 507 del Codice di prove penale per risentire il pentito già ascoltato e di cui erano stati acquisiti al dibattimento una quarantina di verbali provenienti da altri processi. Una vera alluvione di carte che però non ha consentito ai giudici di condannarmi. Tuttavia, invece di assolvermi, hanno richiamato il pentito. Il quale non ha aggiunto nulla, se non 23 “non ricordo” e 3 “non so” in 34 pagine di verbale. Nonostante questo colabrodo mnemonico i giudici hanno deciso di condannarmi lo stesso. Non lo hanno fatto per personale antipatia nei miei confronto, ma per non dichiarare inattendibile il pentito, rivelatosi prezioso in altri processi».

Le motivazioni di una scelta

Perché secondo lei i giudici hanno emesso questa cosiddetta ‘sentenza topolino’ e non hanno preferito un’assoluzione?

«Perché da una parte non potevano smentire completamente l’impianto accusatorio, dall’altra devo ritenere che il vero motivo sia stato quello di non smentire, attraverso un’assoluzione, il ruolo dell’accusatore, rivelatosi preziosissimo in tanti altri processi con imputati altrettanto eccellenti. Tanto più che già la sentenza a carico dei miei coimputati, emessa da altro collegio, nel frattempo diventata irrevocabile, aveva definito il pentito “non pienamente attendibile”. Anche un bambino capirebbe che un’altra “botta” del genere alla credibilità del teste si sarebbe potuta tradurre in una Caporetto giudiziaria per l’accusa negli altri filoni processuali. Morale di questa favola immorale: meglio condannare un innocente, cioè me, pur di non dichiarare inaffidabile questo gioiellino di pentito».

Il clima politico

Si è fatto un idea di perché ha avuto inizio questo processo? Perché si è arrivati a tutto ciò?

«Mi è piaciuta un’espressione usata da Leandro Del Gaudio in occasione della presentazione del libro di Maurelli all’Archivio di Stato di Napoli. Ha parlato di una “furia”, una furia che ha travolto tutto, compresi i giornali. Leandro Del Gaudio, una delle firme più autorevoli della cronaca giudiziaria a Napoli e in Campania, ha evidenziato come questa furia abbia colpito in modo particolare. Noi ne siamo stati vittime, io stesso lo sono stato, di quella furia alimentata da un vento che possiamo definire assolutamente giustizialista, e che si è abbattuto soprattutto sul centrodestra».

Una furia che non si è abbattuta, però, in egual misura su tutto lo scacchiere politico

«Non scopriamo certo l’acqua calda: è evidente che in Campania il centrodestra è stato oggetto di un’azione particolarmente mirata di una parte della magistratura. Potrei citare altri casi che riguardano la sinistra, in cui accuse altrettanto gravi sono state trattate in modo diverso sia dalla stampa sia dalla magistratura, con esiti giudiziari impensabili, come il mancato rinvio a giudizio. Cosa inimmaginabile in processi in cui l’imputato è accusato persino di collusione con i clan o con la camorra. A sinistra è successo, a destra no. A destra ci sono state assoluzioni, come nel mio caso, o in quelli di Giorgio Magliocca, Pio Del Gaudio e Angelo Polverino, dove tutte le aggravanti mafiose sono cadute. A sinistra, invece, si sono registrati persino proscioglimenti in udienza preliminare».

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Il peso delle parole

Una disparità di trattamento evidente

«Questo mi porta a una riflessione: non basta affermare che “la legge è uguale per tutti”, devono esserlo anche i magistrati. Altrimenti, questa frase non significa nulla. Nel mio caso, dov’è stata l’ingiustizia? Perché Maurelli definisce “ingiusta” una sentenza comunque passata in giudicato? Perché nei miei confronti sono state compiute azioni aberranti. Quando il giudice ha deciso di richiamare il teste, lo ha fatto sostenendo che fosse “assolutamente necessario”, come previsto dalla norma. Tuttavia, il teste non ha aggiunto nulla di rilevante ai fini della decisione sulla sua attendibilità, e nelle motivazioni della sentenza il giudice ha completamente omesso quelle dichiarazioni. Ha richiamato un teste ritenendolo indispensabile, ma poi ha cancellato le sue parole dalle motivazioni».

«Ha persino estrapolato una frase dal processo Cosentino, amputandola della sua premessa principale, lasciando solo otto parole: “credo ne avessi parlato anche con Landolfi”. La premessa, però, era fondamentale: “Di questo episodio ho parlato solo con Cosentino perché era lui il mio riferimento”. Tutto questo è stato cancellato, lasciando solo quelle otto parole. Questa è una manipolazione della prova testimoniale. Parliamo di carte truccate. Non si può accettare una sentenza del genere».

Proprio su questo, uno dei problemi maggiori forse è il cosiddetto pentitismo

«Certo, perché se nei tribunali si spaccia materiale avariato, non è che nessuno lo deve dire altrimenti la procura perde il jolly. Ma deve vincere la verità o la procura? Deve prevalere la giustizia o la corporazione giudiziaria? Questo è il punto. I ragionamenti che non riguardano verità e giustizia non hanno diritto di cittadinanza nei tribunali. La politica la deve fare la politica. I magistrati amministrano la giustizia secondo verità: quello è il loro mestiere, non fare calcoli. Se un medico di base mi diagnostica un tumore e io vado da uno specialista, il quale afferma che il medico di base ha detto una corbelleria, lo corregge senza farsi problemi. Non fa una diagnosi diversa solo per non smentirlo e non far dispiacere il medico di base. E così deve accadere anche nei tribunali. Non è che lì questa logica non valga, anche perché nei tribunali nessuno paga, mentre i medici sì. E ciò che è stato fatto a me non avrebbe comunque un prezzo per essere risarcito».

Le lungaggini processuali

Il processo è durato 16 anni, come abbiamo accennato. Durante il decorso del procedimento poteva usufruire della prescrizione. Perché ha scelto di non farlo?

«Mi rendo conto che è difficile da spiegare, ma io la penso così: sono entrato in quel processo da uomo pubblico, da parlamentare in carica, quindi con un dovere nei confronti dei cittadini e delle istituzioni. Questo dovere mi ha impedito di affidare al solo decorso del tempo il giudizio sulla mia onorabilità. Ho avuto fiducia nella magistratura, forse sbagliando, visto l’esito. Ma questa non è una macchia sulla mia fedina penale: è una macchia indelebile sulla magistratura italiana, che ha dovuto imbrogliare le carte per condannare un innocente. La responsabilità non è solo del Tribunale di primo grado, ma anche della Corte d’Appello di Napoli e della sesta sezione di Cassazione, che ha giudicato inammissibile il ricorso dei miei legali dopo 45 giorni. Ha tenuto l’udienza, ha rinviato il giudizio e poi ha dichiarato inammissibile il ricorso, che denunciava la manipolazione e l’occultamento di prove».

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«Un esempio evidente è la telefonata accreditata dal pentito e valutata dai giudici come la prova del mio concorso materiale nel reato. Ma la difesa ha dimostrato che in quel periodo l’utenza del collaboratore era già sotto intercettazione e quella telefonata non figurava tra quelle inviate alla Camera per l’autorizzazione. Di fatto, la difesa ha dimostrato l’inesistenza di quella conversazione. Ma i giudici non si sono persi d’animo e nelle motivazioni hanno scritto che la cosa non rileva perché avrei potuto aver parlato con il pentito a voce o da altra utenza. Incredibile».

Processo a Kafka

Tutto ciò porta ad amare considerazioni finali. Tutta la ricostruzione dei legali diventa quasi inutile

«A questo punto, l’imputato non ha più alcuna possibilità di difendersi. Questo non è il processo a Landolfi, è il processo a Kafka. Se l’imputato porta prove o evidenzia fatti con valore probante e il giudice li scarta sulla base di ipotesi e supposizioni, allora tutto può essere vero e il suo contrario. Il processo non ha più ragione di esistere. Ecco perché questa è una pagina vergognosa della magistratura italiana, su cui nessuno discute, nemmeno a destra. Forse perché ho rinunciato alla prescrizione, non lo so. Forse sono un cattivo esempio»





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