Covid, l’ex assessore Venturi: «Sono stati giorni di angoscia Ma da quella esperienza non abbiamo imparato nulla»

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di
Marina Amaduzzi

L’assessore regionale alla Sanità uscente Sergio Venturi fu nominato commissario ad acta e prestò voce e faccia per gli aggiornamenti serali in diretta su Facebook.

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Durante i primi mesi del Covid-19 l’assessore regionale alla Sanità uscente Sergio Venturi fu nominato commissario ad acta e prestò voce e faccia per gli aggiornamenti serali in diretta su Facebook. «Furono giorni difficili, di grande angoscia», confida.

Dottor Venturi, il Covid-19 non lo avete visto arrivare?
«Sapevamo che in Cina da gennaio c’era un virus che girava ma di cui si sapeva poco, perché le notizie da là filtravano con il contagocce. La vedevamo però come altre volte con precedenti virus: gridare sempre al lupo al lupo fa sì che poi quando il lupo arriva davvero è troppo tardi».




















































Il 20 febbraio il Sars-Cov2 viene diagnosticato nel paziente 1 di Codogno.
«Territorio della Lombardia, ma a 15 chilometri da Piacenza e questo ha immediatamente allertato tutti. Nessuno poteva immaginare quello che sarebbe poi successo».

Lei era in uscita, si era riunita la nuova giunta, c’era un nuovo assessore che si ammalò proprio di Covid. Cosa successe?
«Mi telefonò il presidente Bonaccini e io non mi sono sentito di tirarmi indietro. Stava arrivando un’onda di piena, lenta ma inesorabile che era partita da Piacenza, la provincia più colpita. Poi ci furono da prendere decisioni importanti e molto dolorose come la chiusura di Medicina. Nei primi giorni c’era un’ignoranza assoluta, non si sapeva nulla del virus, della malattia, come curarla, i nostri medici hanno fatto praticamente da maestri in tutta Europa, la nostra esperienza è stata fondamentale, abbiamo insegnato ai tedeschi e agli inglesi».

Con quale stato d’animo guidò la sanità regionale in quel periodo?
«I primi giorni furono di angoscia, sembrava che gli ospedali non potessero reggere, abbiamo trasferito tanti pazienti nella nostra regione e anche fuori».

Tutte le sere alle 17,30 dava in diretta i dati sulla situazione e li commentava, prima dall’assessorato e poi da casa sua. È diventato un fenomeno seguito da decine di migliaia di persone.
«È stata una cosa molto sperimentale ma ha funzionato bene. Io non ero estraneo a quello che stava succedendo, sentivo le ambulanze correre, vedevo la fatica che facevano gli ospedali, i medici, era importante far sapere quello che stava succedendo. Abbiamo avuto punte di 150 mila contatti, ci ho messo me stesso e le persone non ricordano i miei 5 anni da assessore ma quei due mesi e mezzo da commissario».

Che cosa ci ha lasciato il Covid-19?
«Nel libro che ho scritto La goccia del colibrì ho lasciato scritto alcune azioni che andavano fatte a livello nazionale e locale. Dopo 5 anni non sono state costruite le reti dei laboratori e delle rianimazioni che sono fondamentali in queste situazioni. Se non si fa una vera rete degli ospedali non si regge. La lezione più importante da imparare era che tutte le crisi sono collegate: l’inurbamento, la crisi climatica, la cementificazione esasperata. È giusto dimenticare il Covid, un po’ come succede quando hai una brutta malattia, la superi e non ci vuoi più pensare. Dovevamo imparare alcuni insegnamenti, ma come spesso accade non è successo».

Se succedesse oggi, saremmo pronti?
«Abbiamo ancora la memoria, i professionisti sono più o meno gli stessi, ma se dovesse esserci una pandemia tra 15-20 anni allora sarebbe diverso. In Emilia-Romagna la rete dei laboratori e la rete delle rianimazioni ci sono, bisogna coltivarle, alimentarle».

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È stato giusto chiudere?
«All’inizio non è stato sbagliato, è stato un rimedio drastico, necessario quando non conosci praticamente nulla del virus. Non ho mai accettato che periodicamente si tornasse a chiudere le scuole, che sarebbe l’ultima cosa da fare. I danni di quelle chiusure sui giovani continueremo a vederle».

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23 febbraio 2025

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