Il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia: «Dalle riforme caos. Pm sotto il controllo del governo con le carriere separate»

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di
Giovanni Bianconi

Per il procuratore di Palermo esiste una nuova leva di mafiosi che sta sempre più prendendo piede,affermando il proprio potere sia in carcere che fuori

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«C’è una nuova leva di mafiosi e potenziali mafiosi che sta prendendo piede, affermando il proprio potere sia in carcere che fuori», avverte il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia. Che prende spunto dall’ultima operazione antimafia — 181 persone arrestate, metà delle quali con meno di quarant’anni d’età — per analizzare l’attuale situazione di Cosa nostra e lo stato della giustizia alla luce delle riforme varate o in via di approvazione.

È in corso un ricambio generazionale dentro la mafia?
«Sì, da parte di giovani cresciuti dopo la stagione delle stragi che però conservano una forte fascinazione per la strategia corleonese e adottano nuove forme di comunicazione. L’uso di telefoni e piattaforme criptate s’è affiancato ai tradizionali pizzini e consente all’organizzazione di continuare ad agire e fare affari come una struttura unitaria, anche senza la Cupola di una volta».




















































Quindi si conferma che non è vero che i mafiosi non parlano al telefono.
«Non solo non è vero, ma ci parlano benissimo anche dal carcere, consentendo a chi entra di continuare a fare ciò che faceva fuori. E riproponendo la continuità tra il carcere e il territorio di cui parlavano i pentiti negli anni Ottanta. Ci sono detenuti arrivati in cella al mattino che nel pomeriggio hanno chiamato a casa per farsi portare accappatoio e pantofole, destando sorpresa persino nei loro familiari».

Il «41 bis», cioè il cosiddetto «carcere duro» per impedire i contatti dei boss con l’esterno, ha smesso di funzionare?
«No, ma è riservato ai capi delle organizzazioni criminali. Gli altri vanno nel circuito dell’alta sicurezza dove invece entra di tutto, grazie ai droni e altri sistemi, e c’è troppa libertà di circolazione. In questo modo chi non è un soggetto apicale finisce per diventarlo, proprio grazie al potere che è in grado di esercitare dietro le sbarre».

Come?
«Attraverso la riproduzione dei meccanismi esterni, con la sottomissione degli altri detenuti che subiscono la prevaricazione degli esponenti dell’organizzazione criminale. Ed è possibile che i tanti suicidi che si registrano all’interno degli istituti derivino anche da questa situazione».

Come si può intervenire?
«Nelle carceri ci sono troppe persone e poco controllate. Molte non dovrebbero starci, perché la pena non può essere solo detentiva e sarebbero utili forme sanzionatorie distinte per tipologie di condannati e di reati. Il recupero dei tossicodipendenti non può passare dalla prigione, come non dovrebbe starci chi ha disturbi mentali: più che criminali sono malati bisognosi di assistenza, ma le strutture previste per legge sono largamente insufficienti, con gravi problemi di strutture e personale. Solo superando il sovraffollamento, anche attraverso una depenalizzazione che non si fermi all’abuso d’ufficio, si potrà tornare a controllare in maniera adeguata chi realmente deve stare in carcere, per evitare che continui a comportarsi come da libero».

Però sono gli stessi affiliati a lamentarsi, nelle intercettazioni, di una mafia che non è più quella di una volta, ridotta quasi a un’accolita di straccioni costretti ad accontentarsi delle briciole di traffico di droga.
«Che la mafia sia più debole è vero, perché per fortuna trent’anni di repressione avviata dopo le stragi non sono passati invano. Ma della Cosa nostra di un tempo restano il rispetto delle regole, l’attrazione nei confronti dei giovani e la capacità di infiltrarsi nei territori. Prima delle bombe e dei delitti eccellenti c’era una mafia silente e di relazioni che oggi si tende a ripristinare attraverso la minaccia e l’intimidazione. Per esercitarle si deve ricostruire un esercito, con i soldi provenienti principalmente dal traffico di droga per cui serve il controllo del territorio e delle piazze di spaccio. È una catena necessaria per un ritorno al passato che si sta realizzando anche attraverso alleanze con le altre organizzazioni criminali, a partire dalla ‘ndrangheta».

Il ritorno al passato prevede anche rapporti con il mondo della politica?
«Sì, sebbene — allo stato — dalle indagini non si può dire che emergano relazioni di alto livello; la mafia ha altri problemi e oggi non sembra in grado di condizionare la politica. Dunque ci sarebbe la possibilità di amministrare la cosa pubblica senza subire l’influenza mafiosa; il che non garantisce che lo si faccia sempre in maniera lecita, e rende ancora più grave il comportamento di quegli esponenti politici che cercano il contatto con la mafia pensando di averne vantaggi, come abbiamo verificato anche in tempi molto recenti. Realizzando una sorta di riconoscimento politico della mafia che la rafforza».

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La legislazione antimafia è adeguata a fronteggiare questa nuova stagione?
«Per fortuna le riforme non hanno toccato le indagini su mafia e terrorismo, compresa quella delle intercettazioni. E gli interventi sull’ergastolo ostativo si stanno rilevando efficaci. Altra questione è la concessione dei permessi-premio concessi a condannati che non si sono dissociati da Cosa nostra e tornando sul territorio si reimmergono nella loro realtà criminale; è un fenomeno da monitorare con attenzione perché si sta facendo diffuso».

E fuori dell’antimafia, qual è l’impatto delle riforme varate o in via di approvazione?
«C’è un proliferare di norme che sta determinando un certo caos anziché aiutare la rapida celebrazione dei processi. Solo l’anno scorso ci sono stati 21 interventi su procedura penale e codice penale, introducendo nuove figure di reato che appesantiscono il sistema e al tempo stesso nuove regole processuali che finiscono per ingolfarne il funzionamento».

Ad esempio?
«Con l’interrogatorio preventivo rispetto all’ordinanza di custodia cautelare si avvisa l’indagato del possibile arresto, spingendo ad aggirare il rischio di danneggiare l’indagine con qualche forzatura sul pericolo di fuga o altre deroghe; che senso ha? E che senso ha il limite di 45 giorni per le intercettazioni, tranne quelle antimafia e antiterrorismo, quando una corruzione presuppone trattative e accordi complessi difficili da scoprire in un tempo così limitato? Regole rigide per evitare eccessi e abusi negli ascolti c’erano già».

Che cosa pensa della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri?
«È una riforma della magistratura, non della giustizia, e non risolve nessuno dei veri problemi con cui ci confrontiamo ogni giorno, andando invece a incidere su equilibri costituzionali delicatissimi. La parità tra pm e difesa nei processi davanti a un giudice terzo e imparziale è già garantita dal sistema attuale; semmai bisognerebbe preoccuparsi dell’accesso ad avvocati bravi e attrezzati che non tutti possono permettersi. Ma soprattutto si rischia di creare una corporazione di circa 1.500 pm, da cui hanno messo in guardia personalità del livello istituzionale di Marcello Pera e Luciano Violante, che risponde solo al proprio Consiglio superiore, mentre nell’attuale Csm unico la rappresentanza dei pm è minoritaria; una realtà che spingerà il pm sotto il controllo del potere esecutivo».

Però la riforma ne garantisce l’indipendenza rispetto ad ogni altri potere.
«Lo hanno scritto, ma nessun sistema democratico può tollerare un pm che non rende conto a nessuno. Si arriverà a necessariamente a un governo esterno, e non potrà che essere del ministro della Giustizia. Col risultato di un’azione penale orientata secondo i desideri della maggioranza politica del momento».


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