La scelta di Ryad come sede della trattativa tra Russia e Stati Uniti sull’Ucraina avrà rapidi e decisivi effetti anche sulla guerra di Gaza. Sempre con l’Arabia Saudita, sempre come Mohammed bin Salman come baricentro della soluzione. È evidente, infatti, che la cinica strategia di Donald Trump punta a un accordo-quadro generale con Vladimir Putin, da potenza a potenza – con ben poco riguardo, anzi con disprezzo nei confronti dello stesso Volodymyr Zelensky – su tutti i piani delle tensioni bilaterali, incluso quello energetico, ben oltre il cessate il fuoco. È altrettanto evidente che in questa logica, parallelamente alla trattativa sull’Ucraina, si è già aperta una trattativa tra Stati Uniti e Arabia Saudita sul conflitto israelo-palestinese.
Così come è evidente che l’unico leader arabo in grado di rappresentare gli interessi della parte palestinese sia proprio Mohammed bin Salman. Perché il peso politico di Abu Mazen è nullo, e sono deboli, anzi debolissimi, sia Abdel Fatah al Sisi che il re di Giordania Abdallah II. Ambedue a capo di Paesi travolti da una pesante crisi economica alleviata in maniera determinante proprio dai finanziamenti miliardari a fondo perduto sia degli Stati Uniti sia della stessa Arabia Saudita. Entrambi i leader arabi – soprattutto il rais egiziano che mostra un’incredibile opacità politica – privi di proposte strategiche risolutive, di visioni complesse.
Dunque, lo sbocco della guerra di Gaza verrà deciso essenzialmente da una trattativa serrata tra Washington e Ryad all’interno, di nuovo, di una realpolitik tra una potenza mondiale e una potenza regionale nella quale avrà un enorme peso il grande rilancio dei legami tra i due Paesi. Con lucidità, Mohammed bin Salman negli ultimi anni ha fatto comprendere alla Casa Bianca che è pronto a rivolgersi alla Cina se non otterrà il massimo dagli Stati Uniti, cioè un grande accordo di cooperazione militare con enormi forniture di armamenti di ultima generazione; un altrettanto grande accordo di fornitura di tecnologie per centrali nucleari avanzate e soprattutto di tecnologie cyber di ultima generazione, in primis sull’intelligenza artificiale.
Da parte sua, peraltro, bin Salman può offrire a Donald Trump un aiuto non secondario, innanzitutto con i seicento miliardi di investimenti sauditi negli Stati Uniti, già promessi nella telefonata tra i due (non a caso la prima in assoluto di Trump appena rientrato nello Studio Ovale), e anche nel contenimento del prezzo del petrolio, utile per calmierare l’inflazione americana. Ma questa trattativa, già in pieno svolgimento a opera di Steve Witkoff, inviato speciale per il Medio Oriente, nonostante le eccellenti premesse, deve superare un enorme scoglio: superato l’antisionismo secolare di parte arabo islamica che ha impestato per un secolo il Medio Oriente e portato arabi e palestinesi di sconfitta in sconfitta, resta il dato di fatto: non esiste una seria e complessa proposta araba sul tema Palestina.
Con crudezza questo totale vuoto di proposta politica araba sulla questione palestinese è stato ammesso durante l’apposito vertice arabo mondiale di Dubai del 12 febbraio, come riporta Le Monde, da uno dei più ascoltati e influenti politici del Golfo, Yousef al Utaiba, ambasciatore emiratino a Washington: «Non vedo alternative al piano su Gaza proposto dal presidente Donald Trump. Non le vedo veramente. E dunque se qualcuno ne ha una, saremo felicissimi di esplorarla, ma non è ancora emersa alla superficie».
Da più di vent’anni a questa parte gli arabi, sauditi in testa, hanno abbandonato ogni appoggio alla leadership palestinese e hanno lasciato che quella crisi si incancrenisse. Di fatto, hanno così lasciato piena libertà di iniziativa all’Iran e al Qatar, che hanno costruito con enormi investimenti politici ed economici, l’Asse della Resistenza tra Teheran, Hezbollah, Hamas, Houthi e Kataib Hezbollah iracheno, con l’obiettivo strategico di «eliminare Israele dalla faccia della Terra». Il risultato di questo assenteismo arabo e della strategia iraniana è stato il pogrom del 7 ottobre, che ha preso totalmente in contropiede non solo Gerusalemme, ma anche Ryad.
La determinata reazione militare israeliana al più grande massacro di ebrei dopo il 1945, non solo ha inferto colpi mortali all’Asse della Resistenza iraniano, ma addirittura ha provocato l’implosione del regime siriano di Bashar al-Assad, aprendo peraltro una grande possibilità di espansione della propria sfera di influenza sino alle sponde del Mediterraneo alla stessa Arabia Saudita.
Questa cocente sconfitta iraniana ha peraltro favorito dentro Israele il rafforzamento di una posizione di estrema destra revanscista, totalmente abbracciata da Benjamin Netanyahu, che arriva ormai apertamente alla esplicita negoziazione dell’esistenza di una questione palestinese, come si è ben visto quando ha seriamente proposto che i due milioni di gazaui vengano accolti in una «Arabia Saudita che ha un grande territorio a disposizione per accoglierli». Una posizione innescata dallo stesso Donald Trump, che ha addirittura scavalcato in quanto a revanscismo anti-arabo lo stesso Netanyahu, fino alla proposta di fare di una Gaza senza più palestinesi il più grande resort di lusso del Medio Oriente.
Il problema è che i sauditi non possono accettare questa soluzione, pena un’incontrollabile reazione negativa dell’opinione pubblica interna che può scuotere il regno. Eppure non hanno focalizzato un piano alternativo. I sauditi continuano a riferirsi ai «due Stati», formula ribadita da tutto il mondo arabo. Ma ci credono poco, perché sono perfettamente coscienti che a causa del profondo radicamento popolare di Hamas a Gaza e in Cisgiordania, Israele ha tutte le ragioni per sostenere che la propria indispensabile sicurezza sarebbe subito violata con nuovi 7 ottobre da uno Stato palestinese sovrano, anche se demilitarizzato.
Dunque, in mancanza di un piano alternativo a quello radicale di Donald Trump, di cui Bibi Netanyahu è entusiasta, Mohammed bin Salman si affida ora a una politica realpolitiker fatta di piccoli passi. Di fatto, punta a costruire non già una prospettiva rapida di Stato palestinese, che sa bene essere impraticabile, ma un governo alternativo dell’Autorità Nazionale Palestinese che chiuda con sessant’anni di fiancheggiamento del terrorismo e che amministri Cisgiordania e Gaza per anni, per decenni, prima che vengano svolte elezioni con una leadership totalmente rinnovata (d’altronde, non c’è nulla di più estraneo alla mentalità saudita che l’opportunità di elezioni democratiche).
I segnali di questa strategia saudita gradualista e della sua concretizzazione sono evidenti. A dicembre Ryad ha imposto all’Anp di effettuare una dura campagna militare a Jenin contro Hamas e Jihad islamico, la prima della storia palestinese. Il 10 febbraio una svolta ancora più rilevante imposta a un Abu Mazen bollito e riluttante sempre dai sauditi: l’Anp ha annunciato che sospende definitivamente migliaia e migliaia di assegni di mantenimento per le famiglie dei “martiri”, cioè dei terroristi morti facendo stage di israeliani, così come quelli per le famiglie dei detenuti da Israele per aver commesso o pianificato atti terroristici sia in Cisgiordania sia in Israele. Un provvedimento radicale, impopolarissimo, che segna la fine dell’ipocrita complicità piena dell’Anp con i palestinesi che hanno scelto la lotta armata contro Israele.
Un provvedimento dall’enorme valenza politica, a cui Abu Mazen si è dovuto piegare obtorto collo, che prefigura non già un nuovo “piano arabo” per la Palestina, ma le linee guida di una gestione della questione palestinese che permettano di arrivare all’obiettivo strategico vero di Mohammed bin Salman: la firma dell’Arabia Saudita degli Accordi di Abramo che prefigura la costituzione di una grande area di libero scambio e di integrazione economica e tecnologica tra i Paesi del Golfo e Israele.
Dunque, Mohammed bin Salman punta a uscire dall’apparente caos delle relazioni arabo-israeliane di oggi non già con uno Stato palestinese, che magari sarà sempre evocato, seppur solo e rigorosamente a parole, ma con una roadmap di durata pluridecennale di amministrazione de facto della Cisgiordania e di Gaza da parte saudita. Il tutto gestito da una leadership palestinese assolutamente nuova (Mohammed Dahlan, il più noto avversario di Abu Mazen è il più quotato candidato alla bisogna) con competenze rigidamente amministrative, non politiche o statuali. Magari, in attesa della ricostruzione della Striscia con miliardi di dollari dai fondi sovrani arabi, obbligando il debole Egitto ad aprire il Sinai a una emigrazione di gazaui, si vedrà quanto temporanea o definitiva.
Insomma, il progetto saudita che si sta delineando per stemperare le posizioni radicali di Donald Trump su Gaza, e contemporaneamente per riannodare la trattativa storica con Israele, è di fare per un lungo periodo di Gaza e della Cisgiordania due entità amministrative sotto la leadership saudita, con un rinvio sine die della soluzione formale definitiva della questione palestinese, che avverrà solo quando la buona amministrazione del territorio, con pesanti aiuti finanziari arabi, non avrà bonificato la Palestina dai diffusi e storici germi del terrorismo. Di fatto, la replica aggiornata delle linee guida dell’Accordo di Camp David del 1979 che puntava esplicitamente alla formazione di una nuova leadership palestinese dal basso, per via amministrativa, alternativa e antagonista a quella terrorista di Yasser Arafat.
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