La biodiversità è vicina al collasso totale, nell’indifferenza globale

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Riparte a Roma la Cop16 sulla biodiversità. Si era interrotta lo scorso ottobre a Cali in Colombia, per mancanza del numero legale, proprio mentre bisognava decidere sulle questioni più importanti.  A causa del disastro colombiano, si è deciso di organizzare un tempo supplementare in campo neutro. Perché la biodiversità è vicina a un precipizio

In un contesto di generale disinteresse riparte il 25 febbraio a Roma, nella sede della Fao, la Cop16 sulla biodiversità, che si era interrotta bruscamente lo scorso ottobre a Cali in Colombia, per mancanza del numero legale, proprio mentre bisognava decidere sulle questioni più importanti: come mobilitare le risorse necessarie per proteggere gli ecosistemi naturali (stima Onu: 200 miliardi di dollari all’anno), come intaccare la montagna di sussidi pubblici dannosi per la biodiversità che vengono erogati ogni anno (stima Onu: bisogna spostare almeno 500 miliardi di dollari annui).

Come per la Cop29 sul clima di Baku, tutti i negoziati multilaterali sull’ambiente stanno diventando discussioni finanziarie, che si arenano sulla stessa, specifica difficoltà: trovare abbastanza fondi (pubblici e privati) da convertire le dichiarazioni politiche e le buone intenzioni in azioni.

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Le Cop ambientali sono tre: quelle più politicamente importanti, sul clima, si svolgono ogni anno, mentre quelle considerate (a torto) minori, su biodiversità e desertificazione, si svolgono ogni due. A causa del disastro colombiano, si è deciso di organizzare un tempo supplementare in campo neutro, non per non lasciare la lotta per la protezione degli ecosistemi senza risorse operative per altri due anni.

Il precipizio 

Perché tanta fretta? Perché la biodiversità è vicina a un precipizio. Negli ultimi cinquant’anni il 73 per cento della specie di vertebrati ha visto la propria popolazione declinare. Il 22 per cento dei mammiferi, il 13 per cento degli uccelli e quasi il 30 per cento degli anfibi è a rischio estinzione. È per questo motivo che la Cop15 in Canada aveva deciso di adottare un protocollo per rendere area protetta il 30 per cento di terraferma e oceani entro il 2030.

Come spiega Brian O’Donnell di Campaign for Nature, «questi obiettivi non sono cosmetici, servono a prevenire la perdita di servizi che la natura fornisce agli esseri umani: impollinazione, filtrazione dell’acqua e dell’aria, prevenzione delle pandemie». Inoltre, senza una biodiversità sana diventano più difficili la ricerca farmaceutica, le biotecnologie, perfino la cosmetica, si indeboliscono i sistemi alimentari. Il nodo è finanziario perché oltre i due terzi della biodiversità globale è in soli 17 paesi: di questi 15 sono economie del sud globale, dal Venezuela a Papua Nuova Guinea, dalla Repubblica Democratica del Congo al Madagascar, che hanno ben altre priorità di sviluppo (e spesso sopravvivenza) che impedire l’estinzione delle proprie specie endemiche. Ai paesi africani e asiatici servono soldi per fare della biodiversità una priorità. È questo l’obiettivo dei tre giorni di vertice supplementare a Roma: trovare risposte finanziarie a un problema biologico.

L’orizzonte del 30×30, cioè proteggere il 30 per cento della superficie terrestre entro il 2030, è l’equivalente biodiversità di quello che è l’azzeramento delle emissioni al 2050 per il clima. Il problema è che la scadenza è più vicina, e il gap tra dove siamo e dove dovremmo essere è ancora più ampio. Secondo i dati dell’Unep, a oggi solo il 17 per cento delle terre emerse e l’8 per cento degli oceani è tutelato da una qualche forma di protezione legale: quindi rimangono cinque anni per quasi raddoppiare la protezione dei suoli e più che triplicare quella dei mari.

La volontà politica che non c’è 

Non è un caso che mai un obiettivo multilaterale sulla biodiversità sia stato raggiunto, e il 30×30 del Montreal-Kunming Framework non sembra fare eccezione. Per invertire questa tendenza serve un cannone finanziario, un whatever it takes ecosistemico. Mancano la volontà politica, la visione, forse anche un Mario Draghi in grado di scuotere le parti.

Poteva essere la carismatica Susana Muhamad, ministra dell’ambiente della Colombia, paese che ancora guida il negoziato (formalmente, è come se fossimo ancora a Cali, anche se fisicamente saremo a Roma). Il problema è che la natura non è nemmeno politicamente fortunata: Muhamad si è dimessa per problemi di politica interna colombiana, guidare la Cop sarà il suo ultimo atto, lo farà indebolita, provando a convincere i blocchi a parlarsi e trovare compromessi.

Un altro tema politicamente abrasivo è il salvadanaio istituzionale dove mettere i fondi (nel caso venissero trovati). Opzione uno: usare il salvadanaio già esistente, il Global Biodiversity Framework Fund, che ha sede a Washington, negli Stati Uniti. I paesi del sud globale lo considerano espressione del vecchio ordine coloniale, oltre che influenzabile dagli Stati Uniti. A proposito, a differenza del negoziato climatico, Donald Trump non ha bisogno di sabotare quello sulla biodiversità, perché gli Usa non hanno mai nemmeno ratificato la convenzione del 1992.

Questo è il primo vertice internazionale sull’ambiente da quando Trump e Musk hanno azionato la motosega, ma a Roma l’effetto Trump sarà solo indiretto. A Cali, in uno degli ultimi atti multilaterali della presidenza Biden, gli Usa avevano donato 160 milioni di dollari al fondo, pur non essendo parte della convenzione. Sembra diverse epoche fa.

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Il sistema di monitoraggio

Altri temi da valutare nei tre giorni di Roma: i meccanismi e i sistemi di monitoraggio, che sono un tema più politico e meno tecnico di quanto si potrebbe immaginare. Inoltre, sarà un’occasione per discutere un tema sempre più di attualità: il sistema creato al Summit della Terra di Rio del 1992, con tre diverse filiere politiche e altrettante convenzioni e Cop per problemi così interconnessi come clima, biodiversità e desertificazione non ha mai funzionato come avrebbe dovuto e rischia di funzionare sempre meno ora che tutti e tre i problemi si sono aggravati invece che attenuarsi.

Il tema è in agenda alla voce «cooperazione con le altre convenzioni», forse però la parola più adatta, a questo punto della storia, è rifondazione. Tre giorni a Roma sono pochi per farlo, ma forse saranno sufficienti per rendersi conto che non è più rinviabile.

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