Ripensare per riabitare: per le “Vie del Greco”, la resilienza e l’amore per la terra di Stefano Di Marzo

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Il nostro percorso alla ricerca delle ragioni di una necessaria opera di resilienza per contribuire alla salvezza esistenziale dei nostri territori oggi si inoltra per le “Vie del Greco” e precisamente a Tufo dove incontriamo Stefano Di Marzo, conosciuto per i suoi ruoli di responsabilità dirigenziali nel settore associativo e imprenditoriale vitivinicolo ma che oggi intendiamo incontrare nelle vesti del semplice cittadino che ha scelto di impiantare su queste terre non solo le feconde radici dei suoi vitigni ma anche le sue e quelle della sua famiglia. Mi attende nella sua amena residenza di campagna reduce da un’intensa giornata di lavoro ma con il suo riconosciuto piglio di genuina intraprendenza nel mentre le prime ombre del crepuscolo mettono in risalto il lineamenti del Partenio che si erge sull’intera valle.

Di Marzo, è un cognome importante per questo territorio che stringe uno storico legame identitario con esso

«In effetti il capostipite di questo casato, almeno per quello che riguarda le prime tracce genealogiche documentate, si chiamava Vitantonio, come mio padre, ma la mia è una discendenza più collaterale che ha comunque anch’essa antiche radici in questa comunità e che ha sposato l’amore per la terra e il suo rinomato frutto. Non a caso i terreni dove mio padre ha deciso di iniziare la sua avventura produttiva, sognando la realizzazione di una propria cantina di famiglia, erano di proprietà di “Don Fabio Di Marzo” che sono stati rilevati verso la seconda metà degli anni settanta quando la sua attività prevalente era, come quella di suo padre, quello di mediatore nella compra-vendita delle uve. Allora il contesto provinciale era molto differente da quello odierno in quanto primeggiava in una riconosciuta posizione di egemonia un’unica grande azienda del settore e ancora non era maturata la diffusa crescita di esperienze imprenditoriali vitivinicole che si è sviluppata a cavallo tra gli anni ottanta e novanta del secolo scorso».

Quindi, se ho capito bene, tuo padre grazie al contatto e alla contaminazione con il mondo del vino prende spunto per ipotizzare un’esperienza imprenditoriale autonoma

«Esattamente. Mio padre era un metalmeccanico e la sua attività agricola era di supporto e di integrazione al reddito familiare. Ma grazie alle relazioni con le imprese di trasformazione dell’uva dell’epoca ha iniziato a respirare quel contesto e a intuire che probabilmente potevano esserci margini anche per un percorso personale e familiare. L’acquisto di terreni posizionati all’ingresso del paese e il tirar su la cantina è avvenuto in quel periodo per cui io la mia infanzia l’ho vissuta tra i filari delle viti, i profumi di mosto innamorandomi cosi di un mondo nuovo che è diventata alla fine una scelta di vita».

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La tua iniziazione, quindi, non è stata il frutto di una sorta di dovere ereditario, ma qualcosa che è maturato in te in modo del tutto autonomo , potremmo dire tra ragione e sentimento

Stefano abbozza un sorriso e con un tono che non nasconde alcun indugio ci da la sua conferma.

«È naturale che l’ambiente in cui vivi ti offre di per sé un proprio condizionamento ma devo riconoscere che nonostante la sua cultura tradizionale, mio padre ha saputo creare le condizioni perché io imboccassi questa strada in modo naturale e senza condizionamenti. Oggi a ripensarci bene posso dire con serenità che è stato bravo a farmi innamorare di questo mondo attraverso la maturazione di una passione . Così mi sono diplomato presso lo storico Istituto Tecnico Agrario “De Sanctis” di Avellino per poi laurearmi in Enologia presso l’Università degli Studi di Firenze».

Che ricordi hai dell’Istituto di Avellino e come la valuti quell’esperienza anche rispetto al profondo mutamento che questo settore ha registrato dal livello planetario fino al piccolo borgo irpino?

«Mi sono iscritto all’Istituto Agrario con un genuino entusiasmo e voglia di apprendere anche perché nel corso di studi erano già previsto il conseguimento delle specializzazioni in Viticoltura ed Enologia nonostante la nostra provincia non fosse ancora la terra del vino che è oggi, seguendo comunque la lungimirante intuizione del grande Francesco De Sanctis, formando tanti bravi enotecnici nei decenni precedenti al boom dell’enologia in questa provincia, ma direi anche in Campania e nel resto del Paese. Il problema all’epoca era che questa preziosa massa critica professionale non aveva uno sbocco lavorativo immediato in questi territori in quanto mancava ancora un’offerta diffusa, che è sopraggiunta solo nei decenni precedenti per il profondo mutamento che ha registrato il panorama imprenditoriale vitivinicolo in Irpinia, e non solo».

Stefano, io, però, credo che questa condizione evolutiva si sia incrociata con un processo socio-culturale di una generazione che prendendo atto dell’esaurimento, e per molti aspetti del fallimento, dell’economia della ricostruzione post sismica, che per fortuna l’ha fatta uscire in buona parte dal filone ereditario del mainstream clientelare-assistenzialistico degli “anni ruggenti”, ripiegato sulla salvifica aspettativa del “posto” . Si sono liberate risorse umane e intellettuali che hanno dato vita a un tessuto economico e professionale di tutto rispetto che, però, meritava di essere incoraggiato e sostenuto da politiche diverse da quelle di ritorno di un sistema di potere, che, ahimè, è ripreso in questa provincia e in questa regione. Dico questo come premessa di una domanda che non ti chiede una comparazione storica ma una riflessione si, rispetto al più circoscritto contesto territoriale della Valle del Sabato

«I mutamenti sono processi lunghi e complessi per cui nel caso specifico parlare di cambiamenti è un’oggettiva forzatura, in quanto, per onestà intellettuale, devo dire che rispetto agli anni della mia adolescenza oggettivamente non ci troviamo di fronte a un reale processo di cambiamento, se con questo termine intendiamo la trasformazione socio-economica del territorio. E questo riguarda diversi ambiti: dalla percezione alla rappresentazione fino alla individuazione delle sue potenzialità attrattive. Credo che occorra comprendere, ritornando al settore di cui stiamo parlando, che il consumatore medio internazionale non si accontenta più di fruire sulla sua tavola dei rinomati marchi dell’agro-alimentare italiano.

Quello che si cerca oggi è il respiro dei luoghi, il suono degli spazi dove vengono generate le eccellenze primarie del nostro Paese. Vuole visitarli, vuole percorrerli in lungo e in largo, vuole toccarli con mani non accontentandosi dei quadri proposti dalla comunicazione digitale. Vuole capire come si realizza una potatura, come si effettua una vendemmia, come si produce una prelibatezza alimentare. Hai ragione quando dici che un’occasione d’oro è stata quella della ricostruzione ma quell’opportunità, per motivi ampiamente conosciuti, non l’abbiamo colta, né in questa valle né nelle altre, e tutt’ora questo territorio non intercetta i benefici più lati che le consente il brand “Greco di Tufo”, non solo in termini strettamente economici ma anche paesaggistici e ambientali. Questo significa allungare i tempi per un’eventuale inversione di tendenza ovvero far passare la mano alle generazioni che verranno, e che si spera saranno ancora presenti».

Si, ma se noi osserviamo altri fenomeni territoriali, pensiamo al Triveneto, ad esempio, che nel dopoguerra era il Meridione del Nord, che è stato interessato da sconvolgimenti territoriali non secondari – si pensi alle alluvioni del Polesine, al dramma del Vajont e al terremoto del Friuli, notiamo come in queste zone si sia registrato nel tempo una vera e propria mutazione socio-economica-culturale, dove per molti aspetti il fattore eno-produttivo è stato trainante, mentre queste nostre zone sono rimaste sostanzialmente inerti nella mentalità e rispetto ai mutamenti. Come spieghi questa dicotomia?

«Ci sono molteplici fattori che hanno concorso a delineare questa forbice. Retando nel campo del turismo, in primis quello territoriale laddove è innegabile come esista una prima profonda differenza orografica-infrastrutturale tra le due aree in questione e una penalizzazione in tal senso per quelle meridionali. Una seconda è data dalla baricentricità delle aree a nord del Paese che si rapportano con quelle più floride e dinamiche del continente europeo a differenza delle “isolate” popolazioni appenniniche meridionali. La terza è data dalla diversa attrezzatura del territorio che al Sud è a livelli di non sostenibilità. E si tenga presente che questa misura non riguarda solo i flussi turistici di prossimità continentali autogestiti ma anche quelli più remoti, organizzati dai tour operator che coniugano alle grandi città d’arte italiane le aree interne delle colline toscane».

Ma anche noi abbiamo straordinari territori di potenziale decompressione turistica, come le aree interne della Campania, rispetto a quelle a forte affluenza dell’area isolana-costiera-partenopea. E allora?

«Certamente e i numeri del trend per queste aree a forte attrazione turistica è in continua crescita. Il problema è che noi, a differenza del Veneto interno e dei colli umbro-toscani non siamo riusciti a mettere a sistema una correlazione funzionale che sia capace di intercettare un minimo ma costante flusso della grande ospitalità. Le ragioni sono note: assenza di infrastrutture e collegamenti, assenza sul territorio di una struttura organizzativa di ricezione realmente operante e diffusa, e non ultima l’incapacità di comunicare, di presentare, di “vendere”, nel senso più nobile del termine, i nostri territori».

Personalmente io non credo nell’arrivo del turismo di massa per questi nostri territori. Credo che con tutti i limiti e le contraddizioni essi siano ancora portatori di un importante valore aggiunto, di una propria originalità, e questo lo dovrebbero capire prima tutto i poteri e le comunità locali che subiscono l’attrazione fatale della cultura dell’effimero e dell’evento e non si orientano a creare una rivoluzione culturale che rifiuti questo modello per dare vita a uno che si fondi sulla perduranza e sulla tipicità, declinata non a una vetrina espositiva ma a una realtà che è cultura, identità di una comunità locale

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«Se anche volessimo minimamente emulare le esperienze del nord-est e del Centro-Italia credo che oggettivamente, in tempi medio-brevi, non ci sarebbero le condizioni per farlo. Ma l’errore più grave che si potrebbe commettere è quello di pensare di trasportare quei contesti nei nostri territori.

L’omologazione, per quanto di successo, non fa per noi per cui la strada da percorrere, a mio modesto avviso, è quella di coltivare l’originalità delle nostre realtà. A noi non serve creare tante piccole Toscane o piccole Umbrie in Irpinia anche perché nessun consumatore scambierebbe l’originale con la copia. Ecco perché credo che occorra incardinare un racconto di attrazione turistica, ma non solo, sulle specicificità dei nostri territori. E uno degli ambiti che prefigura un futuro interessante è certamente quello del turismo esperenziale che non è solo la visita, il selfie o lo shopping nostrano ma l’incontro, il vivere la realizzazione dei prodotti tipici, tanto per fare un esempio».

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Come sai l’Irpinia, nonostante i forti venti di spopolamento, è una terra che si predispone in modo naturale a valorizzare talune risorse culturali e della tradizione. Un patrimonio che diverse istituzioni locali e territoriali stanno tentando di valorizzare in modo utile e intelligente. Il GAL “Partenio”, tanto per restare nel nostro ambito territoriale, sta sviluppando, ad esempio, un interessante progetto in merito, denominato per l’appunto “Villages of tradition” . Ma è del tutto evidente che queste iniziative, in un certo senso pioneristiche, hanno bisogno di essere supportate dalla messa a sistema del settore enoturistico, e non solo. Una nuova vocazione territoriale se non raggiunge elementi di sostenibilità che concorrono a una certa distribuzione della ricchezza e a una dinamica reddituale rischia di restare un bel progetto di sviluppo ma senza prospettiva

«È proprio quello su cui si ragionava prima . Se noi andassimo alla Borsa del Turismo Internazionale di Milano, la famosa B.I.T., e proponessimo un bel pacchetto enoturistico per la nostra provincia, una volta inseriti in questo mercato, concretamente, allo stato attuale, come faremmo a reggere un’eventuale domanda in tal senso? Noi dobbiamo pur fare tesoro delle lezioni della storia e renderci conto che come è accaduto per la chimera dell’industrializzazione calata dall’alto tra gli anni settanta e ottanta, che non ha generato un nuovo e diffuso tessuto produttivo, tantomeno un’innovativa cultura dell’intraprendenza locale, si rischierebbe un nuovo flop storico se dovessimo puntare su una suggestiva nuova vocazione enoturistica che non andrà oltre al cartellone delle sagre e degli eventi mordi e fuggi».

Si può dire tutto e il suo contrario su talune esperienze socio-politiche del Nord, ma una lettura strettamente storica di quel fenomeno ci conduce al fatto che a un certo punto il ceto operoso, la base sociale di quelle terre, dopo aver avviato un profondo mutamento economico abbia deciso di sganciarsi dal sistema di potere che anche in quelle zone si era manifestato per decenni declinandolo nelle forme che tutti abbiamo conosciuto. Qui, in Irpinia, ma anche nel resto della regione e dell’intero Mezzogiorno, un simile processo di insorgenza, o se si preferisce di liberazione, non è mai avvenuto e tutto sembra proseguire sostanzialmente come sempre, come in un’eterna lettura del capolavoro di Tommasi di Lampedusa. Come ti spieghi una fatto simile?

«Ovviamente una risposta univoca a una domanda così complessa non potrei mai averla, ma non voglio sfuggire a un mio pensiero in merito. E lo faccio riferendomi sempre al mondo dell’impresa agro-alimentare con alcuni semplici esempi. Il Parmigiano è conosciuto nel mondo, come il Prosecco, e se vuoi come gli stessi “stracci” di Prato. Ma non esiste un signor Parmigiano o un Signor Prosecco ma un brand che rappresenta un prodotto di qualità e di rilievo internazionale, che ha visto crescere intorno a sé intere comunità territoriali, trasformatisi poi in distretti, che a loro volta provenivano da storiche esperienze di solidarietà mutualistica. Qui da noi è l’esatto opposto, il nome del produttore principe prevale su quello del prodotto e non ci è alcuna correlazione funzionale con le basi sociali capace di generare un marchio o un affermato brand territoriale identificativo. Mancano, in particolare, una radicata cultura dell’aggregazione cooperativistica e una prevalenza dell’interesse pubblico e collettivo su quello privato, anche nelle sue più residuali dimensioni. Il reddito in questo settore, qui da noi è ancora una rendita di sussistenza e non una risorsa di investimento e non a caso l’economia indotta dalle risorse pubbliche comunitarie e regionali sono intercettate in tale contesto».

Non so se esagero, ma sembra proprio un quadro da moderno “Anciene Regime”

A questo punto non so se per un riflesso condizionato ma Stefano sente il bisogno di aprire una bottiglia di vino e rispecchiarsi nel calice che si tinge di un profumato e inebriante giallo paglierino.

«Io la dico con una cognizione di fatto. E’ inutile coniare modelli di successo per queste terre cosi diverse dalle nostre perché è storicamente provato che qui le cooperative non funzionano, i consorzi non funzionano, i distretti non funzionano, e certamente non per responsabilità di singoli dirigenti od operatori, ma per profonde e diffuse ragioni che riguardano la mentalità, il modo pluricentenario di essere in queste realtà . Questo dovrebbero capirlo una volta per tutte gli ambienti legislativi o ogni livello istituzionale, soprattutto europei e nazionali».

E allora come se ne esce, se questa dimensione rurale ancestrale, oggi evolutasi in un novello egoismo piccolo proprietario, la ritroviamo, per diversi aspetti, anche nell’ambito istituzionale locale, dove è sempre arduo far passare una logica associativa intercomunale rispetto al municipalismo di prossimità imperante

«Io credo che, almeno in una prospettiva temporale di breve e medio periodo, in attesa di auspicabili tempi nuovi, occorra prendere atto di quello che esiste, almeno nel mondo agronomico, e fare in modo che vi sia la tutela del singolo che voglia emanciparsi, intraprendere, comunque in una cornice di valorizzazione collettiva del territorio. Sarebbe un primo e importante passo in avanti verso quell’auspicata evoluzione che un domani potrebbe rendere più agevole la sperimentazione di moderni modelli associativi. E il ragionamento lo estendo anch’io alla dimensione istituzionale perché se vogliamo enti territoriali realmente incidenti credo che debbano consolidare e per certi aspetti riscrivere la sinergia partecipativa tra pubblico e privato, come avviene in diversi Paesi europei dove questi organismi svolgono un ruolo strategico nelle dinamiche della pianificazione dello sviluppo territoriale. Le stesse Misure di finanziamento europee invece di irrorare risorse indistinte possono essere collegate a esigenze oggettive che riguardano problematicità in capo alle avversità climatiche o geomorfologiche per cui sia gli enti territoriali che la stessa Regione Campania possono orientare logiche di attribuzione a queste esigenze e non a meri interessi consensuali».

Siamo giunti alla conclusione e prima di lasciarti potrà sembrarti stravagante chiederti una tua considerazione sulla correlazione vino-Intelligenza artificiale e del ruolo che il nostro Paese può svolgere per tutelare e rilanciare, al di là della propaganda, la sua economia primaria, cosi preziosa per il futuro delle nuove generazioni

«In agricoltura, come in altri settori produttivi, la tecnologia negli anni ha assunto un ruolo sempre più determinante ed è giusto ipotizzare un suo ulteriore impiego, naturalmente in un contesto di compatibilità ambientale e di benessere. Nel campo proprio dell’enologia potrei anche intravvedere l’introduzione di tecniche e sistemi ancora più sofisticati ma francamente mi sembrerebbe fuori luogo e innaturale che un algoritmo un domani producesse una bottiglia di “Taurasi” o di “Greco di Tufo” . Il mondo dell’agricoltura che verrà certamente sarà condizionato dai nuovi e imprevedibili scenari geo-politici ma sullo sfondo per l’intera Umanità esisteranno sempre i problemi irrisolti di una sana e genuina agricoltura, di una giusta distribuzione delle risorse su base planetaria, della fame nel Sud del mondo, del consumo e dell’erosione delle risorse naturali, del peggioramento climatico. Amare la terra non è una scelta bucolica, ma significa avere una certa idea del Pianeta, Significa una certa armonia tra natura e Umanità perché non dimentichiamoci che i debitori del passato siamo noi e non quelli che verranno dopo di noi».

Ringrazio e saluto Stefano Di Marzo rendendogli merito per questo importante momento trascorso insieme. E’ sera, ridiscendo il poggio erboso su cui è stata costruita la sua casa-cantina nel mentre lame di luci trafiggono i tralci che la corteggiano, fermi lì in una sorta di lungo e intrecciato abbraccio, a presidio di una grande storia e del futuro che verrà.

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