La ricostruzione nella Comunità Valenciana è appena cominciata

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«Siamo venuti qui per mandare soldi al nostro Paese di origine, non il contrario»: così Fabián Leal, migrante colombiano che vive ad Alfafar, un comune in provincia di Valencia, ha riassunto gli ultimi mesi della sua vita, dopo l’alluvione che nella regione ha provocato duecentoventisette vittime e tre dispersi. 

Costretto a tornare a lavorare a pochi giorni dal distastro, tra le strade interrotte e l’assenza di mezzi pubblici Leal percorreva in totale venti chilometri a piedi per andare e tornare dall’azienda dove lavorava in nero come elettricista. Dopo due settimane, la dottoressa che l’ha visitato al pronto soccorso per un attacco d’ansia gli ha detto che non poteva continuare così. Leal si è licenziato ma ha continuato a fare piccoli lavoretti per pagare l’affitto, dato che anche la moglie aveva perso il lavoro dopo che l’impresa per cui lavorava era stata costretta a chiudere per i danni subiti durante l’alluvione.

Come Leal e la moglie, nei comuni della Comunità Valenciana più colpiti dalla Dana ci sono almeno centomila persone migranti che fino a inizio febbraio non hanno ricevuto nessun tipo di aiuto dallo Stato spagnolo o dalla regione a causa della loro situazione irregolare.

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A inizio mese, il governo spagnolo ha approvato una misura attesa da mesi: la regolarizzazione delle persone migranti che vivono o lavorano nella zona alluvionata e dei loro familiari diretti. L’amministrazione stima che il provvedimento porterà circa venticinquemila persone a ottenere permessi di soggiorno e di lavoro della durata di un anno: nel caso dei famigliari delle vittime, il permesso avrà la durata di cinque anni. 

«Per fare richiesta bisognerà presentare il certificato di iscrizione all’anagrafe, un documento che molti stranieri non hanno, dato che per dimostrare la loro residenza hanno bisogno di contratti d’affitto, bollette o contratti di lavoro», ha precisato tuttavia Francisco Mora, presidente dell’Observatorio Valenciano de la Migración. Secondo l’Oxfam, oltre alle centomila persone migranti iscritte all’anagrafe nella zona alluvionata, ci sono almeno altri quarantamila stranieri che, lavorando nell’economia informale, non hanno mai avuto la possibilità di iscriversi e che quindi continueranno a non ricevere gli aiuti statali. 

In linea con la politica migratoria del primo ministro spagnolo Pedro Sánchez, che pochi mesi fa ha promosso una riforma della legge sull’immigrazione che snellisce i processi per ottenere un permesso di soggiorno, la misura fa parte di uno degli ultimi pacchetti di aiuti approvati dal governo, che finora ha già stanziato tremila milioni di euro di aiuti: delle oltre cinquecentomila richieste per ottenerli, tuttavia, trecentotredicimila non sono ancora state elaborate. 

Nonostante anche il governo della regione si sia impegnato a stanziare un totale di duecentoventinove milioni di euro, al momento la ricostruzione delle zone alluvionate procede a rilento: dei più di ottomila negozi danneggiati, il quaranta per cento resta chiuso e non esistono dati precisi su quanti studenti abbiano ripreso a fare lezione in presenza. Molte persone continuano a vivere in casa di amici e parenti: non possono né tornare nelle loro case, che sono distrutte o necessitano di lavori, né trovarne una nuova, dato che il mercato immobiliare è fermo. Circa novantamila veicoli sono ancora accatastati nei campi, in attesa di essere smaltiti, e quattromila ascensori non sono ancora tornati in funzione. 

«Riparare gli ascensori è fondamentale: ci sono persone anziane che altrimenti non riescono a uscire di casa», ha spiegato Christan Lesaec, il presidente dell’Asociación de Damnificados Horta Sud, la prima organizzazione costituita dalle persone colpite dall’alluvione a presentare una denuncia contro cinque membri del governo della Comunità Valenciana e contro Miguel Polo, presidente della Confederación Hidrográfica del Júcar, l’ente responsabile della gestione delle risorse idriche nella regione. Anche una seconda associazione, SOS Desaparecidos, ha presentato una denuncia: entrambe sono state accolte dal tribunale di Catarroja, che ha iniziato, con difficoltà, a indagare sulle responsabilità civili e politiche della cattiva gestione dell’alluvione.

Resta infatti da chiarire dove fosse Carlos Mazón, presidente della regione, tra le 14:30 e le 19:30 dello scorso 29 ottobre, il giorno in cui le piogge si sono fatte più intense e letali. Negli ultimi mesi, Mazón ha continuato a difendere la tesi del “blackout informativo” da parte della Confederación Hidrográfica del Júcar. Secondo il presidente, infatti, l’ente non lo avrebbe avvisato in maniera tempestiva degli effetti dell’alluvione sul fiume Poyo, la cui esondazione ha colpito numerosi comuni. 

L’ente sostiene il contrario e ha già fornito al tribunale dati al riguardo, tra cui le sedici mail inviati all’amministrazione della regione sull’aumento della portata del fiume. Negli ultimi mesi, Mazón e altri membri del governo hanno provato a smentire la versione dell’ente pubblicando registrazioni di telefonate tra il presidente e le autorità della Confederación: si tratta però di audio manipolati, dei quali il giornale elDiario.es ha pubblicato la versione integrale, che conferma il punto di vista dell’ente.

Mentre le indagini avanzano, Mazón continua a tenere un profilo molto basso: negli ultimi tre mesi, infatti, non si è mai riunito con le associazioni delle vittime, che nel frattempo hanno organizzato quattro manifestazioni per chiedere le sue dimissioni a cui hanno partecipato migliaia di cittadini.

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