Donald Trump è un agente del Kgb? «Il presidente americano potrebbe essere una spia, una risorsa al servizio dei russi» ha ipotizzato alla Cnn Joe Walsh, un ex deputato repubblicano, che nel 2020 si candidò alle primarie presidenziali. «Dice tutto quello che direbbe Vladimir Putin». Ma c’è anche una ex-spia kazaka che ha fatto su Facebook una rivelazione poi rilanciata dal collettivo Anonymous, e che ha scatenato ovviamente un dibattito. Ma in realtà nel 2018 Craig Unger, giornalista e saggista già deputy editor del New York Observer ed editor-in-chief del Boston magazine, aveva scritto un libro tradotto anche in italiano, aggiornato nel 2021, in cui si accusava Tump diventato presidente di avere contatti inquietanti col sistema politico e mafioso russo. «Casa di Trump, casa di Putin. La storia segreta di Donald Trump e della mafia russa» è il titolo in italiano.
Secondo le ultime rivelazioni, a Trump era stato dato nel 1987 un nome in codice indicativo: Krasnov, come un generale che tradì Stalin per Hitler. Piotr Nikolaevic Krasnov, era il suo nome completo, durante la seconda guerra mondiale sostenne la Germania nazista in funzione antisovietica appoggiando nel 1943 il progetto di Hitler di creare un corpo cosacco che combattesse a fianco della Wehrmacht. Alla fine della guerra, si arrese ai britannici, ma fu subito consegnato ai sovietici, che dopo un processo lampo lo impiccarono il 17 gennaio 1947 a Mosca, nei sotterranei della Lubjanka, la sede del Kgb.
Il kazako Alnur Mussayev racconta di essere stato all’epoca alle dipendenze del 6° Dipartimento del Kgb a Mosca: «L’area di lavoro più importante del 6° Dipartimento era l’acquisizione di spie e fonti di informazione tra gli uomini d’affari dei paesi capitalisti. Fu in quell’anno che il nostro Dipartimento reclutò un quarantenne uomo d’affari americano, Donald Trump, nome in codice “Krasnov”. Trump era l’uomo perfetto: carismatico, ambizioso, con una sete di potere illimitata».
Il settantunenne Mussayev si è formato alla scuola del Kgb di Minsk, per operare poi nei servizi sovietici ed essere poi posto negli anni Novanta alla guida del Comitato per la sicurezza nazionale del Kazakistan (Knb) durante la presidenza di Nursultan Nazarbayev. Dal 2007 vive a Vienna, dove si è rifugiato dopo avere accusato il governo di Astana di corruzione e pagamenti di milioni di dollari in tangenti. Condannato dalle autorità kazake in contumacia, poco dopo il suo arrivo in Austria, Mussayev è stato oggetto di un tentato rapimento.
Mussayev ammette di non avere prove documentali: «Oggi è stato confiscato all’Fsb il fascicolo personale del collaboratore “Krasnov”. L’operazione è stata condotta privatamente da uno stretto collaboratore di Putin» ha spiegato. Le sue rivelazioni hanno però fatto riscoprire alcuni elementi fattuali sospetti.
Lo stesso Trump ha ricordato un viaggio a Mosca fatto nel 1987, motivandolo con opportunità di business in loco. L’imprenditore fu infatti ospite dell’ente turistico sovietico Intourist al quale propose inutilmente la costruzione di un albergo di lusso. Poco dopo, su New York Times, Washington Post e Boston Globe apparve una pagina pubblicitaria da lui acquistata per novantaquattromilaottocento dollari, per rivolgere «al popolo americano» una lettera aperta di dura critica alla politica estera degli Stati Uniti di Ronald Reagan, in cui con trentasette anni di anticipo si lamentava della spesa eccessiva di Washington per difendere i suoi alleati.
Ci sarebbe poi l’insolita operazione immobiliare con cui nel 2008 il magnate russo dei concimi Dmitry Rybolovlev acquistò per novantacinque milioni di dollari una villa a Palm Beach che Trump aveva comprato pochi anni prima per «soli» quarantuno milioni: all’epoca la villa divenne l’abitazione più costosa mai acquistata negli Stati Uniti. Una trattativa fortunata che per Trump cadde al momento giusto, viste le difficoltà economiche che l’imprenditore affrontava in quel momento.
Voci su legami pericolosi fra Trump e il Cremlino erano poi iniziate a circolare già in occasione del primo mandato, con contatti con l’ambasciata di Mosca anche prima dell’insediamento del 20 gennaio 2017. Ci lavorò anche la commissione di inchiesta guidata da Robert Mueller, ma senza risultati).
Il gruppo di lavoro Moscow Project, sostenuto dal Center for American Progress Action Fund, rivelò tuttavia che la campagna elettorale di Trump e il suo team di transizione avevano avuto almeno trentotto incontri sicuri con rappresentanti legati al Cremlino. «Non ho dubbi che la Russia possieda kompromat (informazioni dannose) sul presidente degli Stati Uniti e che il Cremlino lo abbia preparato per anni per salire alla presidenza della principale potenza mondiale», dice Mussayev. Il New York Magazine suggerisce addirittura che la riluttanza di Trump a pubblicare le sue dichiarazioni dei redditi potrebbe derivare dalla possibilità che mostrino un sostegno finanziario ricevuto dalla Russia per molti anni attraverso vari canali.
C’è poi, appunto, il libro di Unger, in cui si riferiscono per bocca dell’alto esponente del Kgb Yuri Shvets le manovre dei servizi sovietici per conquistare Trump, all’epoca sposato con la modella cecoslovacca Ivana Zelnickova, anche solleticando il suo ego. Sarebbe stato lo stesso Kgb a costruire con cura il suo profilo di Trump, puntando sulle sue ambizioni per trasformarlo in una pedina strategica.
Nel suo libro, Unger sostiene che Trump e il suo entourage avrebbero avuto contatti con almeno cinquantanove persone che hanno favorito lo sviluppo di rapporti d’affari fra il tycoon e i russi, incluse alcune con presunti legami con la mafia russa. Trump avrebbe permesso che il suo patrimonio immobiliare venisse utilizzato per più di trent’anni dalla mafia russa per riciclare enormi quantità di denaro, probabilmente miliardi di dollari. E avrebbe anche messo a disposizione di oligarchi russi vicini al Cremlino e di alcuni degli esponenti più in vista della mafia russa sedi operative nella Trump Tower – il suo quartier generale e la sua casa – e in altri edifici di sua proprietà per gran parte di questo periodo, a più riprese.
In particolare con l’arrivo al potere di Putin, per Unger in questo periodo «la mafia russa è stata de facto un attore statale al servizio della Federazione Russa, esattamente nel modo in cui l’intelligence americana è al servizio degli Stati Uniti, e che molte delle persone legate a Trump hanno legami stretti anche con l’Fsb, servizio segreto russo erede del temuto Kgb».
Trump sarebbe stato un osservato speciale dell’intelligence sovietica e russa per più di quarant’anni e sarebbe stato con tutta probabilità il soggetto di una o più operazioni che avrebbero prodotto kompromat (materiale compromettente) sulle sue attività sessuali. Anche se con quello che è saltato fuori già negli Stati Uniti potrebbe sembrare ormai una minaccia spuntata: ma forse non era così in passato.
Sempre secondo questo libro, «agenti russi, inclusi personaggi di spicco della mafia russa, hanno studiato per decenni i punti deboli del rapporto tra politica e denaro in America – dalla distribuzione di carburante a Wall Street, dal finanziamento delle campagne elettorali alle manovre dei lobbisti di Wall Street a Washington – e di conseguenza hanno assoldato una quantità di avvocati, commercialisti, lobbisti e immobiliaristi allo scopo di minare il sistema elettorale, il sistema giudiziario e le istituzioni finanziarie americani».
Ma, non c’era solo Trump. Secondo Unger, lontano dall’essere l’unica potenziale risorsa identificata dai russi, non è stato che uno delle decine di politici – per lo più repubblicani, ma anche democratici – e uomini d’affari che si sono indebitati con la Russia. Per più di vent’anni milioni di dollari sono stati trasferiti da aziende e individui russi, o legati alla Russia, ai politici repubblicani, incluso il leader della maggioranza al senato Mitch McConnell. Ma anche le più importanti figure della sicurezza nazionale americana – inclusi due direttori dell’Fbi, William Sessions e Louis Freeh, e l’avvocato Mitchell Rogovin, consulente della Cia – hanno collaborato con i russi, pur ritenuti una grave minaccia per gli Stati Uniti.
Trump però, come già ricordato, era particolarmente esposto, proprio perché come imprenditore era passato da un fallimento all’altro, contraendo debiti per quattro miliardi di dollari. Poi sono arrivati i soldi russi a tirarlo fuori dai guai, «Di conseguenza, resta debitore alla Russia per la ripresa dei suoi affari e per il lancio della sua carriera politica».
Unger sostiene anche che Trump ha collaborato con il pregiudicato Felix Sater, sospettato di avere legami con la mafia russa. «Ora che è comandante in capo degli Stati Uniti, il presidente Trump, per usare le parole dell’ex direttore dell’intelligence nazionale James Clapper, è di fatto un “agente” al servizio del presidente russo Vladimir Putin o, peggio ancora, come ha detto a Newsweek l’ex-agente della CIA Glenn Carle, “Trump lavora direttamente per i russi”». Una affermazione scritta nel 2018, ma che adesso diventa manifesta.
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