Il grande debito Usa a spese del resto del Mondo

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La politica economica annunciata dal presidente Trump, se attuata, non risolverà i problemi degli Stati uniti e influirà molto negativamente sull’economia mondiale. Muove, tale politica, dalla manifestazione più vistosa di quei problemi: lo squilibrio esterno, umiliante, contro natura per un grande paese. La bilancia dei pagamenti Usa è in cronico, crescente disavanzo dai primi anni Settanta del secolo scorso. Nel 2024 il deficit ha sfiorato il trilione di dollari.

I disavanzi sono stati coperti da una posizione debitoria netta verso l’estero esplosa in questo secolo da uno a 24 trilioni di dollari (prossimi all’85% del Pil). All’epoca lo denunciavano Charles de Gaulle e il suo economista Jacques Rueff: gli americani vivono al di sopra di quanto producono, finanziati dal resto del Mondo, a spese del resto del Mondo, meno ricco di loro.

In posizione creditoria netta – anche verso altri paesi debitori, non verso un’Italia in lieve surplus – si situano il Giappone, la Germania e in misura crescente la Cina, ciascuno con un attivo compreso fra tre e quattro trilioni di dollari.

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L’eccesso delle passività americane (depositi, prestiti, titoli, azioni) detenute dall’estero sulle attività americane verso l’estero si è sinora retto sull’accettazione del dollaro quale strumento di transazione e di riserva internazionale. Ma la permanenza, se non l’irreversibilità, dell’eccesso pone sempre più a rischio il ruolo della moneta statunitense. Se la sua accettazione scemasse, se i creditori e i detentori la vendessero, il suo corso cederebbe. Sarebbero gravissime le ripercussioni per l’economia mondiale e per il tenore di vita del popolo americano, che subirebbe inflazione, crolli di Borsa, crisi finanziaria, disoccupazione.

IL DISAVANZO della bilancia dei pagamenti di parte corrente degli Stati uniti risale a due fattori strutturali: la carente propensione al risparmio (7 punti di Pil al disotto dell’euroarea, per eguale propensione a investire) e la mediocre competitività di prezzo del made in Usa.

Sul primo fronte – l’eccesso della spesa interna sulla capacità produttiva, che droga il Pil – è da evocare il pieno impiego, con la disoccupazione al 4% della forza-lavoro, sebbene questa sia accresciuta dagli immigrati, giunti al 14% della popolazione, il triplo rispetto al 1970. Sul secondo fronte dal 2011 nell’intera economia del Paese l’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto ha ecceduto di un terzo quello delle altre economie (dati Ocse). Alla base di tale perdita di competitività si situano salari giunti agli attuali 65mila dollari annuali, non compensati dalla produttività, o progresso tecnico.

Nonostante le sbandierate tecnologie informatiche e di comunicazione e l’intelligenza artificiale, dal 2% l’anno di un lontano passato glorioso la dinamica della produttività totale ha rallentato fino allo 0,5% l’anno, un ritmo quasi italiano. La sopravvalutazione del dollaro mina ulteriormente la competitività delle merci americane.

Idealmente, alla stregua di qualsivoglia economia, la ricerca dell’equilibrio esterno senza pregiudicare quello interno dovrebbe orientarsi alla restrizione fiscale e monetaria della domanda, unita al deprezzamento controllato del tasso di cambio. Trump invece ha escluso di percorrere tale via canonica: punta sull’autarchia e sul protezionismo. Autarchia attraverso trasferimenti pubblici e detassazione in favore delle imprese nazionali, anche inefficienti, protezionismo, attraverso dazi doganali e divieti di importazione imposti alle merci straniere, cinesi ed europee in particolare.

TRUMP DICHIARA di voler domare i guerrafondai Putin e Netanyahu ma ignora la principale lezione dei grandi economisti: l’antidoto ai conflitti è nel commercio, che beneficia tutte le nazioni e le allontana dalla guerra.
L’ulteriore, connesso, problema che l’economia americana vive è l’inflazione. Per responsabilità congiunta del presidente Biden, della ministra del tesoro Janet Yellen, economista di fama, e del presidente della Fed Jerome Powell, l’inflazione americana dagli inizi del 2021 era salita all’8% già prima del conflitto ucraino, nel febbraio del 2022, e aveva poi toccato il picco del 9% nel successivo mese di giugno. Colpevolmente non si agì per tempo sebbene l’inflazione fosse stata con largo anticipo prevista (Summers).

Al di là delle questioni ideologiche e dei diritti individuali, i democratici hanno poi perso le elezioni a causa dell’inflazione e dell’immigrazione, che hanno inciso sulla tasca e sul nazionalismo dei votanti.

OGGI L’INFLAZIONE SFIORA il 3%, ma può tornare a salire. La alimentano l’eccesso di domanda segnalato dalla disoccupazione ai minimi e dalla dinamica salariale che ne consegue; un disavanzo e un debito della Pubblica amministrazione rispettivamente pari al 7 e al 120% del Pil; prezzo del danaro bassissimo, anche in termini reali, imposto alla banca centrale dagli interessi legati alla bolla borsistica.

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In una economia già surriscaldata, gli interventi minacciati da Trump rischiano di rilanciare in tempi brevi l’inflazione: la chiusura agli immigrati e il rimpatrio della forza lavoro straniera, mentre la manodopera scarseggia; l’espansione della spesa pubblica, anche per fini militari, unita a detassazione dell’economia; l’avversione per l’autonomia della banca centrale; il legame del governo con i gruppi monopolistici, che caricano i prezzi; i maggiori costi interni legati all’autarchia, ai dazi, ai divieti d’importazione. Come nel 2021-2022, dagli Stati uniti l’inflazione contagerebbe l’economia globale, inclusa quella europea.

Trump pensa di esorcizzare lo spettro dell’inflazione espandendo l’offerta nazionale di energia fossile (carbone, petrolio, gas) – ad onta delle micidiali ripercussioni sull’ambiente – e forzando verso il basso (come?) gli stessi prezzi del petrolio Opec. Sottovaluta quanto siano complesse le determinanti macroeconomiche del processo inflazionistico (domanda aggregata, quantità di moneta, aspettative, costi complessivi) a cui non può ovviare il calo delle quotazioni di singoli input – ammesso che si riesca a comprimerle. Di fronte a tanta insanità inorridirebbe Milton Friedman, guru dei conservatori.

PROBABILMENTE L’INFLAZIONE, dopo aver contribuito a farlo vincere, farà perdere a Trump il consenso dell’elettorato. Ma nel frattempo autarchia, protezionismo, conflitto geopolitico, spese militari, rottura dell’integrazione e della cooperazione internazionali si diffonderanno. Incideranno pesantemente sull’intera economia mondiale, oltre che sull’indebolita economia degli Stati uniti.

Di fronte a tutto ciò stride, è davvero rumoroso, il silenzio degli economisti ortodossi, e non solo dei premi Nobel americani solitamente tanto vocali nelle accademie e sui media.



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