Effetto Trump sul commercio mondiale: Cina, Messico, Canada ed Europa

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Il nuovo presidente americano Trump si è insediato alla Casa Bianca e, come un ciclone che sta acquisendo forza, ha iniziato a lanciare avvertimenti – nonché a firmare provvedimenti – che riguardano anche la logistica mondiale. In particolare, sono le sue intenzioni in materia di scambi commerciali, di fatto sottoposti a revisione globale, a far discutere mezzo mondo. 

La scorsa settimana il presidente neoeletto Donald Trump è infatti partito ‘col botto’, come c’era da aspettarsi, annunciando l’intenzione di imporre dazi del 25% sulle importazioni provenienti da Canada e Messico a partire dal 1° febbraio, dando quindi un orizzonte concreto a quella che poteva sembrare solo una ‘sparata’ sensazionalistica. 

Questa mossa fa parte di una lunga serie di ordini esecutivi firmati il 20 gennaio, il primo giorno del suo ritorno alla Casa Bianca: Trump ha motivato l’imposizione delle tariffe in quanto necessarie per rafforzare l’economia statunitense e ridurre l’inflazione, attribuendo la crisi inflazionistica alla spesa eccessiva durante la pandemia e criticando le politiche del suo predecessore Joe Biden.

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Non si è però fermato qui: se con la Cina il comportamento è ondivago, è nei confronti di altri Paesi come il vicino Canada e la Groenlandia che ‘The Donald’ ha intrapreso un braccio di ferro giocato sul filo della neppur tanto velata minaccia. La maggior parte degli analisti sostiene che si tratti soltanto di un escamotage per ottenere una rimodulazione dei trattati commerciali a proprio favore, ma i toni non suonano concilianti.

Ciò detto, anche nei confronti dell’Europa sono stati paventati possibili dazi e, questa, è una notizia che mette in ansia proprio l’Italia e il porto di Genova, uno dei principali scali per le merci in partenza verso gli USA.

Relazioni commerciali con la Cina

Durante la sua campagna elettorale, Trump aveva minacciato di applicare tariffe in entrata fino al 60% sui beni cinesi. Tuttavia, dopo una telefonata con il presidente Xi Jinping, sembra aver rimodulato i suoi piani, dichiarando che ci saranno ulteriori discussioni con il suo omologo cinese prima di una decisione definitiva. 

Trump ha affermato che i dazi rafforzeranno l’economia statunitense, ma si mostra ancora incerto sul fatto che queste misure siano davvero sufficienti per mantenere le promesse fatte agli elettori. Da notare che, parallelamente, Trump ha riabilitato, anche se solo pro-tempore, il social Tik Tok, oggetto di un tira e molla tra Washington e Pechino, che con il 2025 veniva sostanzialmente messo al bando dai provvedimenti dell’amministrazione uscente del ticket democratico Biden-Harris.

Tanto per giocare sempre su più fronti, Trump ha preso di mira anche il Canale di Panama e, pure qui, la ragione di fondo va ricercata nel contrasto all’espansionismo commerciale cinese.

Panama di nuovo agli States?

Nel suo discorso inaugurale, Trump ha espresso senza tanti giri di parole l’intenzione di “riprendere” il controllo del Canale di Panama, che è sotto l’autorità panamense (oltre che nel suo territorio) dopo il passaggio di mano di 25 anni or sono.

In risposta, il presidente panamense José Raúl Mulino ha categoricamente respinto le dichiarazioni di Trump, ribadendo che il Canale è e continuerà a essere sotto il controllo panamense, rispettando il suo status di neutralità permanente. Mulino ha sottolineato che il Canale è il risultato di lotte generazionali culminate nel 1999 con il Trattato Torrijos-Carter e che, qualora gli Stati Uniti davvero intraprendessero azioni lesive della sua integrità, Panama eserciterà i suoi diritti basati sul Trattato e sul Diritto Internazionale.

Gli oltre 80 chilometri artificiali che collegano gli Oceani Atlantico e Pacifico e che permettono alle navi di evitare il periplo dell’America Latina sono fondamentali per i traffici marittimi, ragione per cui negli ultimi decenni anche i Cinesi si sono fortemente interessati all’area. L’accusa di Trump riguarda un presunto trattamento di sfavore sulla tassazione dei passaggi delle navi statunitensi, sebbene l’Autorità del Canale panamense abbia fatto sapere che dei sovrapprezzi scattano solo qualora le navi comprino un diritto di precedenza a discapito di altre, sovvertendo così la priorità data dall’ordine di arrivo.

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La reale ragione dell’interesse della Casa Bianca è più probabile che stia nel non lasciare troppo spazio di manovra all’aggressività di Pechino in quanto a influenza sulle infrastrutture centro e sudamericane.

Le pretese sulla Groenlandia

Trump è anche andato in pressing sulla Danimarca, entrando a gamba tesa sulla pacifica isola della Groenlandia, sulla quale ha avanzato pretese ricorrendo ad un linguaggio ambiguo se non quasi aggressivo nei confronti di uno Stato sovrano.

Trump sembra aver intrapreso una sorta di Risico mondiale, proferendo offerte d’acquisto e annessione per svariati territori – dal Canada alla Groenlandia, passando per Panama, appunto. ‘The Donald’ ne fa una questione strategica ed economica, dichiarando che gli Stati Uniti dovrebbero considerare l’acquisizione del territorio danese che corrisponde all’isola artica. 

Questa proposta ha ovviamente suscitato un putiferio a livello internazionale, con molti leader che hanno espresso preoccupazione per le implicazioni geopolitiche di una tale mossa. Anche in questo caso, la sgangherata, se non altro dal punto di vista diplomatico, uscita del neopresidente a stelle e strisce potrebbe trovare un fondamento vagamente più razionale se inquadrata in una prospettiva di guerra commerciale contro Cina e Federazione Russa.

Mosca, infatti, ha per dote naturale il controllo di gran parte dell’Artico e non è un mistero che tifi per il disgelo dei mari: a meno che le tendenze climatiche del pianeta non si invertano clamorosamente nel giro di pochi anni, le rotte artiche potrebbero essere presto navigabili senza l’ausilio di rompighiaccio, il che vorrebbe dire ‘uccidere’ moltissime delle rotte attuali.

Forse, a voler vedere della lucidità nella pretesa di Trump, la Groenlandia potrebbe interessare sia per le risorse energetiche, sia per una strategia di futuro contrasto ad un controllo totale dell’Artico da parte della Russia e dell’alleata Cina.

L’opposizione canadese

Chiaramente le dichiarazioni del presidente statunitense non trovano terreno fertile da parte dei governi esteri che si sentono chiamare in causa. È il caso dei ministri canadesi, che hanno dichiarato che il Canada è pronto a rispondere con adeguate ritorsioni commerciali ai dazi annunciati da Trump. 

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La ministra degli Esteri canadese Mélanie Joly ha affermato che il Canada continuerà a lavorare per prevenire l’istituzione delle tassazioni sull’export, ma che il Paese è anche pronto a reagire. Il ministro delle finanze canadese, Dominic LeBlanc, ha sottolineato che il Canada è preparato a rispondere a qualsiasi scenario. 

Va però ricordato che l’argomentazione dei dazi messa sul tavolo da Trump nei confronti del Paese della foglia d’acero ha la valenza di una pistola carica posta sulla scrivania: il Canada è uno dei paesi al mondo che più dipendono dal commercio, con il 75% delle esportazioni dirette verso gli Stati Uniti. Inoltre, il Canada è la principale destinazione di esportazione per 36 stati americani e fornisce un quarto del petrolio consumato dagli Stati Uniti.

I timori dell’economia europea e italiana

Le dichiarazioni ‘impazzite’ di Donald Trump in materia di dazi non hanno risparmiato l’Europa, sebbene nei confronti della UE non si sia espresso in maniera altrettanto determinata in quanto a tempistiche che nei confronti di Messico e Canada.

È però vero che sta facendo pressioni perché le industrie europee producano investendo negli States, minacciando altrimenti ritorsioni commerciali, il che ha sollevato preoccupazioni significative nel Vecchio Continente.

Una preoccupazione condivisa anche in Italia, in particolare in Liguria, dato che il porto di Genova è uno dei principali scali per le merci dirette oltreoceano e che, attorno ad esso, ruota l’economia della regione, ma non solo. Il Made in Italy, infatti, ha negli USA uno dei suoi storici sbocchi.

Il reale impatto dei dazi sull’export continentale sarà però chiaro solo quando la propaganda lascerà il campo ai numeri reali; bisogna anche tenere in considerazione che gli annunci ad effetto dell’amministrazione americana non fanno che aumentano l’incertezza in un contesto in cui le esportazioni italiane sono già deboli.

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I dazi preoccupano la Liguria

In questo quadro generale, la Liguria è una delle regioni più interessate d’Europa dal problema degli eventuali dazi, grazie alle sue storiche relazioni fatte di scambi con gli Stati Uniti e grazie alla rete di porti del Mar Ligure Occidentale. 

Genova e la Liguria sono difatti i porti principali per le merci destinate agli Stati Uniti, e, qualora i dazi dovessero accanirsi su merci che caratterizzano l’export italiano, essi potrebbero davvero causare una reazione a catena con un crollo degli ordini, un calo della produzione e, conseguentemente, una minore richiesta di trasporto. Si tratta di uno scenario che preoccupa non solo l’industria europea e italiana, ma anche chi si occupa di trasferire beni, ossia la logistica.

Dati i rischi dell’essere legate a un unico mercato di sbocco, le aziende italiane devono lavorare per diversificare i mercati. Il “Made in Italy” ha, come asso nella manica, una qualità spesso impareggiabile e una serie di comparti, cosiddetti ‘di alta gamma’, che possono ritenersi poco impensieriti dall’incremento di spesa dovuto ai dazi. 

Questo potrebbe, almeno in parte, proteggere l’Italia dagli effetti negativi delle tariffe, facendo reggere la domanda malgrado gli aumenti di prezzo in virtù della qualità del prodotto.





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