Anche in questa legislatura, come in ogni legislatura dal 1993 a oggi, le forze politiche di maggioranza hanno già ricominciato a discutere di come cambiare la legge elettorale, ovviamente a proprio vantaggio. Se non fossimo tutti ubriachi delle nostre fissazioni e idiosincrasie, basterebbe questo a dare un giudizio definitivo sulla stagione delle grandi riforme istituzionali (ed elettorali) aperta ormai più di trent’anni fa con il referendum maggioritario. Trattandosi di truffa, mi raccomando, state attenti a non farvi ingannare dalle parole: anche la legge «proporzionale» di cui si sta discutendo contiene ovviamente un bel «premio di maggioranza», ma soprattutto la vera e unica anomalia italiana di questi decenni, le coalizioni pre-elettorali, non per nulla sconosciute a ogni altra democrazia occidentale. Le motivazioni sono sempre le stesse con cui questo incredibile giorno della marmotta viene giustificato dai suoi stessi promotori da trent’anni filati: la necessità di assicurare governi stabili e porre fine al potere di ricatto dei piccoli partiti. Chiunque in questi tre decenni abbia vissuto in Italia può valutare da solo l’efficacia di una simile terapia. L’unica novità, ma si tratta in realtà anche in questo caso di un grande ritorno, è un elemento per dir così di contesto: la fascinazione per il modello americano riaccesa in tanti dalla sfilza di ordini esecutivi firmati da Donald Trump appena arrivato alla Casa bianca, che spaziano dall’uscita dagli accordi sul clima e dall’Organizzazione mondiale della sanità allo Ius soli, passando per la grazia per tutte le persone coinvolte a qualsiasi titolo nell’assalto al Congresso del 2021.
Vedi ad esempio l’incredibile tweet del ministro della Difesa, Guido Crosetto, in cui qualche giorno fa lamentava come «in Italia decisioni politiche di questo tipo avrebbero richiesto anni, più di una legislatura in alcuni casi e molti passaggi istituzionali». Ma pensa un po’.
Allo stesso tema, ma con tono fortunatamente ben diverso, si dedica oggi sul Corriere della sera anche Walter Veltroni. «Tutto sta in quella penna. O, meglio, nella sua plateale esibizione», scrive l’ex segretario del Partito democratico. «Il simbolo del tempo che ci attende è in quella sequenza infinita di firme con le quali Donald Trump ha voluto dare ragione a quanti, tra noi, pensavano e scrivevano che il secondo mandato non sarebbe stato come il primo». Veltroni si domanda giustamente cosa possa fare a questo punto l’opposizione, e se abbia imparato la lezione, se abbia capito che «i temi sui quali Trump ha conquistato, almeno in parte, l’opinione pubblica» meritano «risposte nuove che non deridano paure e ansie ma avanzino soluzioni chiare». Affermazione che personalmente mi sentirei di sottoscrivere, a condizione che si tratti davvero di soluzioni nuove, e non delle stesse soluzioni adottate dalla destra, magari solo infiocchettate con parole più gentili, e forse neanche troppo, perché ovviamente tra gli errori della sinistra c’è anche «il superamento del politicamente corretto come recinto asfissiante», oltre al «tema della sicurezza personale», del «governo dei flussi migratori» e all’immancabile «riforma delle istituzioni per renderle più funzionanti». Parole che di nuovo non esiterei a sottoscrivere, se arrivassero al termine di una ragionevole riflessione autocritica di tutto il gruppo dirigente del centrosinistra circa i guasti prodotti da un certo modo di intendere questa stessa linea, che abbiamo sotto gli occhi proprio in questi giorni: dagli accordi con la Libia siglati a suo tempo da un governo del Pd (a proposito di gestione dei flussi migratori) alla stessa infatuazione per il modello politico-istituzionale americano (presidenzialista e maggioritario, per non parlare dell’organizzazione dei partiti e delle primarie), di cui Trump ci mostra oggi chiaramente tutti i pericoli.
Leggi l’articolo di Mario Lavia su questo tema
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