Donald Trump insiste: palestinesi nel Sinai. Ma l’Egitto nega ogni colloquio

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di
Davide Frattini

Netanyahu invitato a Washington il 4 febbraio: sarà il primo leader straniero

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DAL NOSTRO CORRISPONDENTE 
GERUSALEMME – Per la prima volta in sedici mesi il gas per cucinare è entrato a Gaza, ancora sono pochi gli abitanti a poterne uscire, solo i feriti più gravi, il valico di Rafah resta di fatto chiuso. Dall’altra parte c’è il Sinai, quello che gli storici egiziani chiamano «lo scatolone di sabbia» e che Donald Trump — lo ha ripetuto ieri — considera una soluzione per permettere ai palestinesi «di vivere senza disordini e rivoluzioni. La Striscia è stata un inferno per secoli, così la gente potrebbe vivere in zone molto più sicure e più confortevoli».

Il presidente americano probabilmente non sa quali sono le condizioni dei 100 mila palestinesi rimasti in Egitto dopo che Hamas aveva abbattuto il muro alla frontiera nel 2008 e un milione di persone si era riversato di là: quasi tutti sono stati ricacciati indietro dall’esercito, e chi è riuscito a restare è stato segregato in un’area desertica vicino a El Arish, recintata e sottoposta a controllo militare. Questi rifugiati non hanno alcun diritto: non hanno il visto, non possono lavorare e sono già stati definiti stranieri illegali, quindi deportabili in ogni momento.




















































Il presidente Abdel Fattah Al Sisi ha ribadito che non è disposto ad accogliere la popolazione di Gaza, nonostante il leader americano abbia messo sul piano la tattica che conosce meglio: i dollari. Al Cairo farebbero comodo con un deficit statale a 2,2 miliardi di dollari. L’offerta di denaro non basta, al punto che dal palazzo del raìs smentiscono che ieri ci sia stata una telefonata con la Casa Bianca per discutere del progetto, come invece aveva proclamato Trump ai giornalisti. Il piano includerebbe anche la Giordania, ancora più contraria perché lo spostamento forzato significherebbe la fine di qualsiasi possibilità per la nascita di uno Stato palestinese. Come contrario è tutto il mondo arabo e la comunità internazionale. Abbas Aragchi, il ministro degli Esteri iraniano, ha ironizzato suggerendo al presidente americano di «mandare gli israeliani in Groenlandia», il territorio che vorrebbe sottrarre alla Danimarca.

Allo stesso modo Trump non esclude «la soluzione dei due Stati» e dice che ne parlerà con Benjamin Netanyahu, il premier israeliano, nell’incontro a Washington previsto per la settimana prossima, il 4 febbraio: è il primo leader straniero a essere invitato alla Casa Bianca dall’insediamento di nove giorni fa. Oggi in Israele arriva Steve Witkoff, l’inviato di Trump per il Medio Oriente, dopo essere passato per il Golfo: è qui per monitorare la tenuta del cessate il fuoco — dovrebbe andare anche a Gaza — e soprattutto per valutare la mossa a cui il suo capo tiene tantissimo: la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita in cambio delle basi per la creazione di una nazione palestinese.

I mediatori americani, egiziani e del Qatar stanno già lavorando per assicurarsi che la tregua raggiunga la seconda fase e diventi permanente. A Netanyahu — sotto minaccia da parte dell’oltranzista Bezalel Smotrich, che vuole la ripresa della guerra o lascia il governo — arriva il sostegno degli ultraortodossi: lo esortano a riportare a casa tutti gli ostaggi, a Gaza ne resterebbero una sessantina dopo la liberazione di questi primi 33. Gli assicurano che la coalizione non cadrebbe, significa che si sono già mossi tra i partiti centristi per trovare sostituti ai voti di Smotrich.

Il governo sta anche procedendo con la messa in pratica della legge votata tre mesi fa che mette al bando l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa). L’organizzazione — che gli israeliani accusano di essere «infiltrata da terroristi palestinesi» — deve lasciare la sede di Gerusalemme e lo Stato ebraico taglierà tutti i contatti. «Questa aggressione mette a rischio la vita dei palestinesi e la pace», replica il direttore Philippe Lazzarini.

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