Destra di Popolo.net » Blog Archive » “L’ATTO NON ERA DOVUTO, ERA OBBLIGATORIO, NON C’ERA ALTERNATIVA ALL’INVIO DELLE COMUNICAZIONI GIUDIZIARIE PER MELONI, MANTOVANO, PIANTEDOSI E NORDIO”

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LA GIORNATA PIÙ LUNGA DEL MODERATO LO VOI, MAGISTRATO DI DESTRA ATTACCATO DAGLI SCAPPATI DI CASA PER AVER APPLICATO LA LEGGE

Francesco Lo Voi, classe 1957, in magistratura da 43 anni . Con chi lo ha cercato al telefono per misurarne umore e stato d’animo, ha scherzato.
“Come sto? Di salute, bene”. A chi gli ha chiesto se la legge gli consentisse strade diverse da quella che ha scelto ha ripetuto quello che, in assoluta e voluta solitudine, ha ripetuto a se stesso la mattina in cui ha firmato le comunicazioni giudiziarie per Giorgia Meloni, Alfredo Mantovano, Matteo Piantedosi e Carlo Nordio. “L’atto non era dovuto. Era obbligatorio”.
Il forsennato spin, costruito a tavolino da Palazzo Chigi, che nello spazio di poche ore lo ha travolto su ogni canale di comunicazione possibile – televisioni, radio, giornali, social – e la bastonatura lessicale che gli ha riservato la presidente del Consiglio, ricordando il “fallimentare precedente” da Procuratore di Palermo nel processo istruito contro Matteo Salvini, lo hanno scientificamente “mascariato” alludendo a ciò che lui, magistrato della corrente più conservatrice dell’Anm (Magistratura indipendente) non è mai stato: un martire in toga pronto a farsi saltare in aria nel cuore del governo in nome di un disegno politico di vendetta per la incipiente riforma di separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.
Una macroscopica manipolazione pari solo a quella che lo vorrebbe unico protagonista del processo a carico di Matteo Salvini e da cui Salvini è uscito per ora assolto. Non fosse altro perché nei due processi istruiti a Catania e Palermo a carico dell’ex ministro dell’Interno per identiche ipotesi di reato sono stati dieci i magistrati (sia inquirenti che giudicanti) che si sono pronunciati nel tempo. E tutti con un identico esito. Che l’allora ministro dell’Interno dovesse andare a giudizio.
Ma è proprio qui il punto. Perché, a ben vedere, è proprio nella sproporzione tra ciò che il governo attribuisce all’atto di Lo Voi e il significato tecnicamente neutro che pure quell’atto riveste giuridicamente che questo magistrato palermitano alle soglie della pensione ha probabilmente peccato di ingenuità.
Lui che pure ingenuo non lo è affatto. Il procuratore di Roma si era convinto che non condividere con nessun magistrato del suo ufficio (dunque con nessuno dei suoi aggiunti) l’invio delle comunicazioni giudiziarie per il caso Almasri, deciderne soprattutto il come e il quando (la legge dà al procuratore 15 giorni di tempo) ne avrebbe garantito ulteriormente la riservatezza.
Che il rispetto del segreto istruttorio, l’asettica e burocratica trasmissione dell’esposto dell’avvocato Li Gotti al tribunale dei ministri a sole 48 ore dalla sua presentazione sarebbero stati letti non come un atto di slealtà istituzionale, ma come il suo contrario. Come un “atto di garanzia”, che è poi quello che la legge prevede.
A maggior ragione, perché non era una prima volta. Perché in passato altri esposti presentati nei confronti di componenti di governo erano passati per la scrivania di Lo Voi ed erano stati comunicati agli interessati prima di finire archiviati al tribunale dei ministri senza che se ne avesse notizia. Insomma, in questo day after è di solare evidenza che se un rimprovero Lo Voi può muovere a se stesso è quello di aver sottovalutato la spregiudicatezza politica dei suoi interlocutori istituzionali.
Tra cui, per altro, un magistrato come lui, Alfredo Mantovano, come lui cresciuto nella stessa corrente dell’Anm e a lui legato da un rapporto personale che si è andato malamente guastando nel tempo, come dimostra la velina con cui Palazzo Chigi decide di ricordare l’uso dei voli di Stato del procuratore di Roma per raggiungere la sua Palermo che lo stesso Mantovano aveva provveduto a sospendere.
Ha sottovalutato che il credito politico bipartisan di cui pure ha goduto in questi anni non ha più diritto di cittadinanza in una fase politica dove sul tema della giustizia la maggioranza non ha intenzione di fare prigionieri. A maggior ragione dopo l’incidente che aveva visto nei giorni scorsi l’involontaria ed errata diffusione di atti istruttori della Procura sul conto del capo di gabinetto di Palazzo Chigi Gaetano Caputi.
Insomma, di fronte ai quattro pezzi di carta arrivati sulla sua scrivania – le due paginette dell’esposto dell’avvocato Li Gotti e due articoli di Repubblica – il Procuratore di Roma ha scelto non solo di non esercitare alcuna forma di discrezionalità – ammesso che la legge gliela riconosca – ma anche solo di arricchire quelle poche carte facendo richiesta di altri atti o di attendere le comunicazioni sul caso che il governo aveva annunciato al Parlamento.
Il che, sicuramente, gli avrebbe consentito di guadagnare del tempo, spingendosi fino al limite che gli consentiva la legge (i 15 giorni, appunto) e, forse, di smontare così l’argomento di chi oggi lo accusa di non aver saputo o voluto valutare la fondatezza dell’esposto. Ma che pure lo avrebbero esposto ad un’accusa di segno opposto: quella di aver avviato un principio di istruttoria, sia pure solo ricognitiva, a carico della premier e di tre figure chiave del suo gabinetto, senza che la legge gliene riconoscesse il potere.
Lo Voi ha ritenuto di non avere scelta, nonostante ci siano opinioni discordanti su margini di valutazione e discrezionalità relativi a tempi e modi di apertura di un procedimento penale; soprattutto a carico di persone di un certo peso. Ma per il procuratore non era questo il caso.
Perché l’istanza del legale rappresentava «un fatto determinato e non inverosimile», formula utilizzata dal codice di procedura penale per distinguere le denunce degne di approfondimento da quelle manifestamente infondate che possono essere ignorate senza l’iscrizione sull’apposito registro.
(da agenzie)

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