Myanmar: una nazione sfigurata dalla guerra

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di Paolo Affatato

Quattro anni di guerra civile hanno ridotto il Myanmar allo stremo. Nell’anniversario del golpe che il 1° febbraio del 2021 ha rovesciato il governo democraticamente eletto, la nazione si guarda allo specchio e si ritrova sfigurata. Il Myanmar è il luogo più violento del mondo, ha riferito l’Armed conflict location and event data project (Acled), organizzazione che raccoglie e analizza dati sui conflitti nel mondo: sono oltre 50.000 i morti — tra i quali oltre 8.000 civili — e oltre 3,5 milioni gli sfollati. È un conflitto che Papa Francesco non manca di citare nei suoi ripetuti appelli per la pace.

La guerra porta la fame, che ha raggiunto livelli allarmanti: la situazione è destinata a peggiorare nel 2025, ha avvertito il Programma alimentare mondiale (Wfp) dell’Onu, prevedendo che oltre 15 milioni di persone soffriranno la fame nel 2025, rispetto ai 13,3 milioni dell’anno scorso. Quanti vivono in aree attraversate da scontri armati tra l’esercito e le forze di opposizione (in particolare negli Stati di Chin, Kachin e Rakhine e nella regione di Sagaing) sperimentano alti livelli di insicurezza alimentare, riferisce il Wfp, mentre 20 milioni di persone — oltre un terzo dell’intera popolazione — avranno bisogno di assistenza per nutrimento e malattie. Crescono anche gli sfollati che si prevede nel 2025 aumenteranno di un milione di unità, man mano che il conflitto prende piede e si diffonde in nuove aree.

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«I prezzi dei prodotti alimentari in Myanmar continuano a salire ogni mese. Le persone non hanno le risorse per acquistare i beni di prima necessità, a causa della diffusa indigenza», rileva a «L’Osservatore Romano» padre Bernardino Ne Ne, sacerdote che, dopo aver prestato servizio pastorale a Yangon, rientra nella diocesi di Loikaw, nell’Est del paese, un territorio segnato da violenza e sfollamento. «Migliaia di persone sono sull’orlo del baratro, sono in campi profughi o in insediamenti spontanei nelle foreste. Non possono coltivare la terra, sopravvivono a stento e solo grazie agli aiuti di gruppi caritativi come quelli cattolici», racconta. Proprio a Loikaw, dove l’esercito birmano ha occupato il complesso della cattedrale di Cristo Re per farne un campo base, anche il vescovo e i suoi preti vivono da sfollati, e condividono in toto la vita dei profughi.

Un capitolo che crea immane sofferenza è quello delle mine antiuomo: secondo il «Landmine Monitor 2024», le forze militari hanno aumentato l’uso di mine che uccidono e feriscono indiscriminatamente. Nell’ultimo anno, sono state documentate vittime in tutti i 14 stati e regioni del Myanmar e in circa il 60% delle città. Sono 692 le vittime civili di mine nei primi sei mesi del 2024, un terzo dei quali bambini. Racconta l’agenzia Fides: «I soldati entrano nei villaggi e costringono gli abitanti a fuggire. Posizionano le mine antiuomo nel villaggio, nelle fattorie, nei campi di riso e mais, intorno all’accampamento militare. Gli abitanti locali, per la loro sopravvivenza, vanno in quei terreni a rischio della vita. I militari danneggiano intenzionalmente i civili perché li accusano di sostenere le forze di opposizione».

Dopo quattro anni di conflitto, la situazione racconta di una giunta che cerca di rafforzare le sue fila con una campagna di coscrizione obbligatoria e i giovani che non vogliono essere arruolati fuggono nella vicina Thailandia, per sfuggire al servizio militare. Accanto a questo fenomeno, si registra un’esplosione del lavoro minorile: la guerra ha generato una carenza di lavoratori , che si colma ricorrendo al reclutamento di minori, da impiegare in settori come l’abbigliamento, l’agricoltura, la ristorazione, il lavoro domestico, l’edilizia, la vendita ambulante, in aperta violazioni dei diritti dell’infanzia. La Federazione dei lavoratori del Myanmar nota che i bambini sono particolarmente vulnerabili allo sfruttamento. E mentre in molte aree le scuole restano irrimediabilmente chiuse, i ragazzi sono privati ormai da anni del diritto fondamentale all’istruzione, con un grave impatto sul loro futuro.

In tale tragica cornice, racconta Hyginus Myint Soe, sacerdote di Yangon, anche la comunità cattolica «vive un tempo di deserto», immersa in una nazione che patisce per il conflitto civile, mentre nelle chiese l’attività è spesso ridotta alla celebrazione dei sacramenti. L’impegno di preti, religiosi e laici, sia nelle zone più cruente, sia in quelle al centro del Paese — dove vi sono tensione e paura ma non violenza — è andare verso i bisognosi, gli sfollati, le vittime dell’indigenza o della disperazione, «laddove mancano la casa, il lavoro, il cibo, il sostentamento quotidiano, l’istruzione». Si fanno così, nell’anno del Giubileo, dispensatori di speranza.



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