Francesco Delzio, classe ’74. Nato a Bari, ma cittadino romano da più di 30 anni. Sei imprenditore e manager, professore universitario, scrittore ed editorialista. C’è un filo rosso che unisce un percorso apparentemente così diversificato?
«Beh, un filo rosso c’è. È l’idea che costruire qualcosa di nuovo sia sempre meglio che subire qualcosa di vecchio, meccanicamente ripetuto. La mia bussola sta nel provare a creare pensiero innovativo, dall’accademia ai libri fino alle aziende. Mettendo insieme ostinatamente teoria e pratica, merito e metodo, in un Paese che è sempre stato abituato a fare esattamente il contrario».
Entrando nello specifico. Quindici anni fa hai fondato il Master in Relazioni Istituzionali, Lobby e Human Capital della Luiss Business School, di cui sei Direttore. Che ruolo ha avuto secondo te nella professionalizzazione di questo lavoro in Italia?
«Un ruolo prezioso. Tutto è nato nel 2008, all’interno dell’Associazione Laureati Luiss. Da Presidente lanciai una riflessione: se i partiti di massa si stanno sgretolando, perdendo il tradizionale ruolo di sintesi tra interessi economici e sociali, e se gli stessi protagonisti della rappresentanza di interessi entrano in crisi, chi svolgerà nei prossimi anni la funzione di ponte? Quella essenziale tra pubblico e privato? La risposta che ci siamo dati, insieme ad un gruppo di colleghi manager di grandi aziende, anticipava ciò che in effetti si è verificato negli ultimi vent’anni: le imprese sono state chiamate sempre di più a gestire “in prima linea” il rapporto con i decisori pubblici, e hanno compreso che quest’attività non può essere più affidata all’istinto personale, o alla pratica da marciapiede. Da tutto ciò è nata quindici anni fa in Luiss un’offerta formativa nuova, inizialmente circondata dallo scetticismo generale, con l’obiettivo di importare in Italia il modello di lobbying dalle migliori Università anglosassoni, fondato su: competenza, trasparenza e reputation. Oggi il Master ha una Faculty d’eccellenza, ed è il punto di riferimento in Italia per chi desidera affrontare questa professione – così affascinante e complessa – o per chi, praticandola già, vuole darsi maggiori chances di crescita professionale. Insomma è una risposta, concreta e visibile, a chi si ostina ancora a considerare il lobbying come lo “sterco del diavolo”».
Qual è stata la tua soddisfazione più grande in questo percorso?
«In questi anni ne abbiamo avute tante. Ne dico una, recente: aver selezionato per l’accesso al Master un’ex europarlamentare, brillante e competente come Lara Comi, che ha deciso di intraprendere una nuova vita dotandosi di competenze manageriali anche nel public affairs. O ancora una campionessa olimpica in carica, come Caterina Banti. Ma vedi ormai mi capita quasi ogni giorno di incrociare, in aziende e nei luoghi istituzionali, ex allievi del Master. Anche quando non li riconosco al momento, li individuo subito. Capacità e stile sono inconfondibili…».
Perché secondo te il lobbying è utile alla democrazia?
«Per una serie corposa di motivi fondamentali. In primis perché supporta il legislatore nell’affrontare efficacemente materie e mercati complessi, portando un know how che spesso le tecnostrutture di Ministeri e Parlamento non hanno a disposizione. Perché coinvolge i destinatari delle norme nelle attività istruttorie, che servono a definirla, rendendo le nuove norme “effettive”, realmente applicabili. In definitiva perché aiuta a costruire un ponte tra teoria e realtà, in un sistema-Paese nel quale in tante occasioni restando purtroppo campi di gioco distinti e distanti.
Sei anche Presidente dell’associazione “La Scossa”, un think tank che elabora analisi e proposte a supporto delle politiche economiche e sociali del Paese. Nella nuova era del public affairs che ruolo hanno questi strumenti di advocacy?
«L’advocacy oggi ha la stessa importanza del lobbying. Anzi: nei settori più difficili da gestire per la politica, si rivela spesso l’arma più efficace per le aziende. In realtà la nostra Associazione vuole soprattutto colmare vuoti, di analisi e proposta, su temi che sono strategici per il futuro del Paese. Perché oggi non è facile rispondere alla fatidica domanda: chi “pensa” il pensiero politico in Italia?».
Nel 2023 hai pubblicato “L’era del Lavoro Libero”, un testo che analizza la rivoluzione post-pandemia del mondo del lavoro. A distanza di due anni pensi che la strada di questo ribaltamento sia irreversibile o che ci siano riflessioni da aggiornare?
«L’assetto pre-pandemia non tornerà più. Stiamo vivendo infatti una “curva della Storia”, sotto l’effetto simultaneo di due rivoluzioni. La prima è portata avanti da due generazioni di lavoratori, la Gen Z e i Millennials, che oggi non chiedono più al Lavoro solo la retribuzione e la carriera ma molto altro. Su tutto: smart working e flessibilità organizzativa, maggiore autonomia, worklife balance e un coinvolgimento più forte in azienda, alla ricerca di un “senso” più profondo del loro lavoro. La seconda rivoluzione è quella dell’Intelligenza Artificiale generativa, che avrà grandi impatti quando il costo delle nuove tecnologie diventerà accessibile alle nostre piccole e medie imprese. Nella dura transizione in cui molti posti di lavoro saranno bruciati dalle macchine intelligenti, e almeno altrettanti che oggi neanche immaginiamo saranno creati, i primi ad essere colpiti saranno gli impiegati che gestiscono dati: dal finance al marketing, arrivando ai call center. Il risultato finale sarà un mondo con meno ore di lavoro complessive a disposizione, con una qualità e una produttività medie del lavoro più alte, con più autonomia in ciascun lavoro e una distinzione sempre più sfumata tra lavoro dipendente e autonomo».
Ma vivi anche l’altro fronte, da amministratore pubblico, nel Consiglio d’Amministrazione di Sviluppo Lavoro Italia. In una battuta: come la valuti?
Interessante e complessa. Il settore pubblico ha oggi un tremendo bisogno di competenze manageriali provenienti dal privato. Ma chi si illude di poter sostituire semplicemente le una alle altre, rischia di provocare il “rigetto” del trapianto. L’unica strada possibile allora è quella di cercare di ibridare i due modelli di gestione».
Ultima. Sei diventato quello che volevi diventare da grande? O la vita è stata più sorprendente delle aspettative?
«Mi viene in mente Pennac che diceva, “non c’è nulla che vada come previsto. È l’unica cosa che ci insegna il futuro, quando diventa passato”».
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