Dizionario minimo anti-Trump (3) | La Fionda

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Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva/3: l’area del dissenso (cialtrone) e l’élite popolare

Cultura critica (ma soprattutto autocritica!)

Per risorgere come Europa (la cui etimologia equivarrebbe a “ampie vedute”…) bisognerebbe cominciare da uno sforzo epistemologico non facile: liberarsi dal modulo mentale fisso di cui è prigioniera la cosiddetta CRITICA “progressista”, vale a dire l’incapacità di mettere nel dovuto conto il ruolo della mitopoiesi nel tentare una possibile contro-egemonia.

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Prendiamo come case history le reazioni indignate all’immagine degli immigrati illegali, ammanettati e in fila verso la deportazione aerea, postata su X dalla nuova amministrazione di Trump con la frase “promesse fatte, promesse mantenute”. Quelle catene ai polsi dovrebbero smuovere il substrato etico di empatia che dovrebbe accendersi nei confronti di altri esseri umani, non importa di che origine o condizione, trattati come i negrieri trattavano gli schiavi. La scelta fotografica, naturalmente, è voluta: posto che corrisponde a una possibilità prevista in specifici casi (soggetti ritenuti a rischio di fuga ecc), la comunicazione della Casa Bianca ha inviato un messaggio di iconica durezza per creare una frattura emotivamente percepibile. Un prima e un dopo, rispetto al tema immigrazione. E su che basi lo ha fatto? Rivolgendosi a un altro sentimento ben incistato nella sensibilità comune, e americana in particolare: lo scontento per la mancanza di “fatti”, la frustrazione  causata dal modo, schizofrenico, in cui è gestita l’immigrazione irregolare: lasco e ipocrita, e soggetto a ondate di espulsioni (il cui record, finora, è del democratico Bill Clinton).

Quel fotogramma, cioè, risponde simbolicamente a una richiesta talmente forte e radicata da passar sopra, nell’adrenalina post-insediamento di Trump, anche a un’istintiva riprovazione morale. È stata una comunicazione estrema a un problema percepito come estremo, sentito come non più sopportabile. Di fronte a notizie di questo tipo, il progressista medio cosa fa? Si straccia le vesti, freme di orrore, si appella al senso di umanità. Oppure snocciola dati, numeri, verità contestualizzate ma fredde, che nella sua testa dovrebbero prevalere per merito intrinseco. Non comprende che la verità, a maggior ragione in una società dove le immagini sono più potenti dei ragionamenti, è la risultante di un’esperienza collettiva che si genera attraverso la ripetizione di credenze con una loro solida base di realtà (altrimenti non potrebbero essere credute) e mediante il verificarsi di strappi emotivi, spesso artefatti a bella posta, e tuttavia dagli effetti reali (dato che più le emozioni sono forti, più si sedimentano nella memoria).

Non capisce, la nostra anima bella, che la guerra delle idee non si combatte con i buoni sentimenti o le statistiche, ma intercettando e orientando i flussi emotivi, le rappresentazioni che agiscono nell’inconscio di massa, i simboli dalla presa istantanea potenzialmente in grado di ridefinire l’immaginario alternativo. Detta altrimenti, bisogna inventare un saluto anti-romano, un’iconografia opposta, perfino una liturgia che sia carica di fascino e magnetismo. Non è con l’argomentazione logica, fondata magari sul senso di colpa e sul perfettismo morale, che si arriva ai cuori e anche alla tanta diffamata “pancia”, che una sua importanza ce l’ha eccome (lo zen addirittura localizza sotto l’addome, nella zona intermedia che separa dal pube, il vero centro spirituale, l’hara).

Se consideriamo il caso di Elon Musk, si capisce perché è tanto popolare. Innanzitutto perché, usando un eufemismo, è pieno di difetti, incasellabile, umanamente simile all’uomo della strada e contemporaneamente simpatico per le sue bizzarrie. È immigrato anche lui (sudafricano, non ha la cittadinanza Usa), fa uso di droghe (comprese quelle “popolari” come la marjiuana), gli fu diagnosticata la sindrome di Asperger, è ricorso all’utero in affitto per diventare padre, ha sempre votato Democratico per poi convertirsi ai Repubblicani, da ragazzo veniva bullizzato e adesso fa il bullo a sua volta (l’idea del match a pugni con Zuckerberg nel Colosseo), il suo universo culturale è fermo all’adolescenza (Signore degli Anelli, Guida galattica per autostoppisti, l’antica Roma, per cui ogni anno manda un camion di fiori in omaggio a Giulio Cesare come fosse un parente), mal sopporta regole, codici e giudici, si mostra umorale, contraddittorio, spaccone. Professa idee strampalate e inquietanti ma, per quanto strano, fascinatrici (condivide per esempio l’esigenza di fare più figli, ma solo se per i genitori istruiti, altrimenti si rischia di scivolare “in un futuro teocratico e oscurantista di ignoranti”).

E soprattutto, corrisponde allo stereotipo del vincente che è in voga da decenni: Musk è il self made man diventato ricchissimo per aver innovato in tutti i campi in cui ha messo le mani, sognatore sfrenato fino alla mitomania. Un genio? Può darsi. Un complessato di talento, di sicuro. Ma qui l’importante è capire che fa egemonia più lui di tanti intellettualoni, e non solo, banalmente, per i 430 miliardi in cui è stimato il suo patrimonio, ma per la capacità di parlare a un’immaginazione colonizzata da Mammona, il dio dollaro trasvalutatore di tutti i valori e commisuratore di tutti i desideri.

Questo è il punto. Mentre anche noi in queste righe si parla il cerebrale linguaggio dell’analisi, l’Oligarchia sa mobilitare gli animi con quello caldo e seducente del mito, la “nuova frontiera” nello Spazio, e dell’epica della super-intelligenza, rivendicando l’avidità come valore su scala individuale, nazionale e, nelle fantasie più hard, come un’etica per la specie, per una super-razza ibridata con i computer. Opporre alla suggestione della potenza cibernetica la critica intellettualistica eretta a feticcio, arida e moralistica, significa perdere in partenza. Anzi, non entrare neppure in partita.

Potenza (di volontà)

Chi scrive non ha un’estetica con nuovi miti e riti da proporre. Ma una cosa è sicura: davanti al richiamo della potenza – nel caso di Trump e Musk, la potenza del quattrino e della tecnologia – un futuro soggetto politico che non intenda rassegnarsi all’irrilevanza dovrà affermare una sua volontà di potenza, intesa come cosmo di valori, simbologie, gesti e carisma che costruisca, pezzo a pezzo, un’altra realtà possibile e autonoma rispetto all’ideologia dominante. Contro le piramidi di soldi di questa manciata di ricchi senza più contatto con il reale, servono gli sforzi congiunti dei meno ricchi, a condizione che prendano a odiare a pelle la truffa dell’american way of life. E siccome sul piano delle risorse i Paperoni tossici resteranno imbattibili, a sopperire parzialmente non può che essere la determinazione organizzata di un’avanguardia addestrata al conflitto ideologico (il sottoscritto gli darebbe il nome di buon europeo).

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Se la Storia la fanno sempre le minoranze, lasciando stare per ora il problema delle basi su cui formare la nostra, saremo obbligati in primis a trasformare noi stessi, a impegnarci contro noi stessi, contro i nostri accomodamenti, preconcetti, scappatoie, viltà. Essenziale è la formazione, per chi aspiri a una trasformazione. Un lavoro educativo non solo culturale e politico, ma esistenziale e antropologico. Un compito non per domani, per l’oggi. Se prima non cambiamo noi, o non cambia, per essere esatti, chi fra noi è più disposto a disintossicarsi da quella forma di dipendenza che è la perversione individualista (generatrice di quella nazionalista e, da ultimo, di quella transumanista), come possiamo immaginarci un cambiamento di fondo? 

Ora, mentre Trump, politico e venditore, segue e amplia il target, riguardo al muskismo si leggono dotti approfondimenti sulle sue implicite o esplicite, presunte matrici ideali. Si citano Nick Land e l“illuminismo reazionario”, per il disprezzo snob per la democrazia, per l’accelerazionismo che piace alla gente che piace (e che, stringi stringi, non è che un fatalismo paraculo), per le sue prefigurazioni di Stati tramutati in società per azioni, con l’amministratore delegato al posto del capo del governo. Raffinata paccottiglia. Interessantissima, per carità, dato che offre uno straccio di dimensione colta all’ultimo grido del capitalismo liberale. Ma sempre di capitalismo liberale parliamo, mosso dall’eterna molla di assicurare il comando all’intreccio di privilegio economico e mano tecno-militare. Con la differenza che ora, giunti a concentrazioni neo-feudali di potere sempre più smisurato, le parvenze democratiche si rivelano per quello che erano già: velami, cascami di un’epoca finita.

Al cittadino non manca la consapevolezza di essere nient’altro che un nulla, di fronte all’immane strapotere del capitale globalizzato. Tanto vale, allora, convincersi che il corso della Storia, e quindi della sua vita, è una inevitabile fuga in avanti. Così stabilisce la Tecnica, così conviene all’Economia, e così deve pertanto confermare la Politica. Una Politica non del tutto abolita, ma che può fare benissimo a meno della partecipazione popolare, intralcio a volte non da poco. Non sono le macchine che diventano come noi (cari cultori della “singolarità”, spiacenti per voi ma gli algoritmi non potranno mai farsi autocoscienti). No, siamo noi che stiamo diventando simili alle macchine.

Lorsignori infatti non possono più accontentarsi di vederci giudiziosamente intenti a consumare e produrre: ci vogliono prevedibili, profilati e felicemente sottomessi al processo in atto, con la rassegnazione beota di chi spera, ognun per sé e nessun dio per tutti, di sfangarla arrangiandosi e sgomitando più che può. Di qui il martellamento sistematico sull’ineluttabilità del progresso tecnologico. Intendiamoci: diretto da una Politica consegnata alla Tecnica e all’Economia e privata di qualsiasi ispirazione filosofica (o religiosa, per i sensibili al trascendente), è logico che ci sia da aspettarsi uno sviluppo di progressione matematicamente esponenziale.

Élite (aperta, selettiva, vietata ai cialtroni)

Ma nonostante ciò, si può e si deve essere fiduciosi. Primo, poiché l’inaspettato, il rivolgimento, l’imprevedibile sono un’eventualità sempre dietro l’angolo. E occorre tifare perché ci rimanga. Il futuro non è mai scritto (o non completamente, con buona pace dei frustrati per i quali i libri di storia nasconderebbero una sequela di cospirazioni). Secondo, perché la fisiologica tendenza al riequilibrio che caratterizza la natura vivente si incaricherà di alzare argini al senso di infantile irresponsabilità che promana dallo stile di vita occidentale (io Occidente, io America, io oligarca, io benestante, io piccolo borghese, io so’ io, e voi, voi che siete altro da me, non siete un cazzo). L’origine biologica in cui ogni coscienza culturale affonda le radici, per quanto ripudiata e negata dagli imbecilli, reagirà e si farà largo in qualche modo. I bisogni istintuali del corpo, tutt’uno con la psiche, torneranno a esigere i loro diritti.

Con “corpo” deve intendersi anzitutto la corporeità del singolo, fondamento organico che l’ambiente virtualizzante tende a rendere un accessorio superfluo. In politica, il significato di corporeo vale per ogni dato sociologico dotato di una sua immanenza, come la sovranità di patria o l’interesse di classe. Il corpo è la prima istanza, lo strato inconscio, la fonte spontanea di energia di noi umani. Sempre ammesso, va da sé, che noi si voglia continuare a dirci umani. Il corpo, se compresso nelle sue necessità fisiologiche, retroagisce somatizzando. Il nostro impegno civile consiste nel liberare il corpo sociale.

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Sorgerà, il contro-movimento. Com’è ovvio, sarà appannaggio di pochi, almeno in una prima fase. Contrastare l’élite implica farsi élite, a maggior ragione se il tasso di coinvolgimento politico è crollato al minimo storico. Tocca essere elitari, sì. Che non significa nel modo più assoluto nutrire complessi di superiorità di nessun genere, né chiudersi nella nicchia a zappare l’orticello. Significa studiare, prepararsi, sperimentare. Tentare vie non battute, alchimie inedite, ponti immaginifici. Spiazzare. Spiazzarsi. Strappare all’Oligarchia l’immeritata etichetta di un elitarismo che, nel loro caso, nulla ha di eletto o di aristocratico: non sono umanamente i migliori, anzi sono in assoluto i peggiori, visto che mettono le proprie indubbie qualità al servizio di una causa malata.

Ancor più severamente dovremmo giudicare coloro che nella cosiddetta “area del dissenso” intorbidano le acque con la triplice tabe del narcisismo, del settarismo e dell’elettoralismo. Perché se è importante constatare (vedi alla voce “Democrazia” di questo scritto) che uno dei mezzi per ottenere visibilità e, al limite, risorse pubbliche con cui finanziarsi può concretizzarsi nel partecipare alle elezioni, d’altra parte il furbastro che sfrutta il risentimento “anti-sistema” per tornaconto personale, o per darsi arie, lo riconosci dall’impazienza con cui vorrebbe entrare nelle istituzioni. O dalla fanatica intolleranza nei confronti di chi dovesse azzardare una critica, marchiata a fuoco come sabotaggio dell’“infiltrato”, del “gatekeeper”, del “traditore” e via infamando. Il tutto, condito da vittimismo, pose guerresche, proclami roboanti. Insomma, cialtronaggine a piene mani. E guai a farlo presente, a questi permalosi eroi della libertà in perenne lite fra di loro: emanano scomuniche che è un piacere. In media, non c’è mondo più allergico al dissenso del mondo del dissenso (personalmente, e con il dovuto rispetto per i più che validi elementi che pure lo popolano, preferisco chiamarla del dissesto – mentale).

Sia come sia, nel rimandare ad altro momento una più esaustiva trattazione, a grandi linee posso accennare qui ai caratteri fondamentali di quella che, a mio modesto parere, dovrebbe grossomodo essere la “nostra” élite: apertura democratica, selezione mediante scuola interna, palestre di discussione, frequenza di pratiche comunitarie. Con divieto categorico d’ingresso ai revenants, ai commissarietti del popolo, ai cerca-poltrone, ai lancia-anatemi. E possibilmente – vasto programma, lo so – agli spacciatori di banalità e di retorica.

Sono necessari ambizione e insieme senso delle proporzioni, per riscoprire il piacere di lottare per una meta altissima e al tempo stesso, se ci si pensa, di semplice umanità: l’ideale secondo cui ciascuno, popolo o individuo, possa esprimere la propria potenza vitale, dispiegando le potenzialità naturali che porta in dote. Al di qua di ogni paranoia artificiale, e al di là del miserevole ego che un po’ tutti, se non impariamo a limitarlo, abbiamo in comune con i Trump e con i Musk. La Grande Politica non è superare l’umano, né giocare a chi ha il razzo più lungo: è rendere giustizia alla vitalità, ovunque essa venga schiacciata e repressa.

Segue a: Dizionario minimo anti-Trump, il nemico che ci voleva/2: capitalismo woke e addio Occidente (era ora!)

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