«I ragazzi col coltello sono figli di disagio psicologico e povertà»

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Escono di casa con in tasca il coltello «per difesa». Questa è la giustificazione che i magistrati sentono ripetere più spesso dai ragazzi che poi finiscono imputati: per lesioni nei casi meno gravi, per omicidio in quelli peggiori. L’ultimo caso è avvenuto a Tortona, appena giovedì scorso.

Secondo il ministero dell’Interno, i numeri sono cresciuti subito dopo il Covid: se nel 2019 le segnalazioni di minori per lesioni dolose erano poco più di 2500, dal 2022 sono cresciute a 3569 e il numero è in continuo seppur lieve aumento.

Eppure il reato è solo la conseguenza visibile di qualcosa di molto più radicato. Paola Ortolan, giudice minorile al tribunale di Milano, lo osserva tutti i giorni.

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Fissiamo un elemento temporale. Il fenomeno è davvero esploso dopo la pandemia?

Sì, e si possono identificare due ordini di ragioni. Gli anni del lockdown hanno aumentato le difficoltà personali dei genitori, sia dal punto di vista economico che psicologico. Questo ha reso più deboli gli adulti, provocando conseguenze sui loro figli. Dal canto loro, questi bambini e ragazzi hanno perso due anni di scuola e quindi di socializzazione. La mancanza di contatti sociali in alcuni ha fatto emergere difficoltà che già esistevano: fragilità psicologica dovuta al periodo di crescita, difficoltà di entrare in contatto con i propri pari e di provare empatia per gli altri. Si tratta di qualcosa che è anche connesso al tipo di educazione che viene impartita oggi: più improntata alla solitudine e alla competizione e meno alla condivisione e al mettersi sullo stesso piano degli altri.

Come si lega questo con il fatto di girare armati?

I ragazzi considerano i coltelli un’arma di difesa. Prima ci si difendeva coi pugni, oggi si tira fuori il coltello che è prima strumento di minaccia, poi di aggressione. Evitando le generalizzazioni, posso dire che l’istinto di difendersi viene messo in atto da questi ragazzi molto prima di come accadeva in passato e probabilmente la causa è appunto la loro difficoltà di stare in relazione con gli altri. Usciti dalla pandemia, i più grandi hanno sentito il bisogno di ricostruirsi una socialità. Ma il gruppo genera identificazione e, quando si innescano azioni violente o sbagliate, aderire ai principi del gruppo significa anche non riuscire a distaccarsene. E questo non vale solo per i coltelli.

A cosa si riferisce?

L’età della prima assunzione di droga è sempre più bassa, con poca consapevolezza o sottovalutazione delle conseguenze. Le droghe leggere vengono assunte in età precoce, si passa facilmente alla cocaina e alle droghe sintetiche che danno dipendenza e sempre più spesso a questo si aggiunge anche l’abuso di farmaci e psicofarmaci, anche a causa della semplicità nel reperirli anche sul web.

Quali giustificazioni danno, quando i ragazzi vengono fermati armati?

La prima scusa è quella di dire che avevano il coltello per difendersi. Raccontano di avere paura quando escono in strada da soli e senza il loro gruppo, quindi escono armati. Poi però non sono in grado di rispondere alla seconda domanda: perché, se era per difesa, hai tirato fuori il coltello e hai attaccato? Questo è il passaggio che più va indagato: questi ragazzi passano molto facilmente all’atto violento, senza essere capaci di valutarne le conseguenze. Siamo davanti a nuove generazioni poco portate a comprendere le conseguenze delle loro azioni, a tutti i livelli, ed è un problema educativo enorme.

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Pensa alle conseguenze giudiziarie?

Anche. Molti ragazzi sono francamente stupiti quando vengono imputati di concorso in rissa, rapina oppure lesioni. Faticano a comprendere come dal solo fatto di essere presenti e di non distaccarsi dal gruppo possano avere conseguenze penali.

Lei fa risalire l’origine del problema a un connubio tra fragilità familiari e carenze educative.

Non è un caso che i problemi di cui parliamo inizino a manifestarsi in ragazzini di prima media, con la fine del tempo pieno a scuola. Non sono più impegnati nel pomeriggio, tornano a casa a mangiare e magari non trovano nessuno. Qui si innesca la questione familiare: spesso si tratta di giovani che non possono essere accuditi dai genitori, che appartengono alle fasce del lavoro povero, lavorano su turni pesanti e non sono in grado di seguire i loro figli nelle ore pomeridiane, lasciandoli con ampia libertà di uscita.

È un problema che colpisce di più i figli di famiglie immigrate?

È statistico che nei ruoli di udienza più della metà siano stranieri. Tuttavia è sbagliato pensare che questo sia il problema. Molti sono figli di famiglie straniere assolutamente integrate, ma i genitori fanno lavori che li costringono a turni di molte ore con stipendi bassi e magari l’esigenza di mandare qualcosa ai parenti nei paesi d’origine. Questo fa sì che loro stiano poco in casa e che i loro figli abbiano meno opportunità: per esempio non possono permettersi di praticare una attività sportiva o fare corsi pomeridiani. Così, soprattutto nelle grandi città e nei quartieri ad alta densità di immigrazione, i ragazzi non possono fare altro che scendere in strada e cercare rifugio nel gruppo. E vale per stranieri e italiani.

Esistono differenze tra italiani e stranieri?

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I giovani esprimono il disagio con atti violenti eterodiretti come le aggressioni, o con atti contro di sé, come l’autolesionismo. La radice però è molto simile, affonda nel loro profondo dolore psichico. Il fenomeno di atti di autolesionismo è trasversale, ma posso dire che forse è più frequente che siano i ragazzi italiani ad arrivare in ospedale con tagli autoinflitti.

La sintesi sembra essere che tra le principali cause della violenza ci sia la povertà.

Influisce in modo determinante. I ragazzi che arrivano al tribunale dei minori per la maggior parte provengono da famiglie disastrate sia dal punto di vista economico che delle relazioni. La scuola da sola non basta né a contenerli né a gestirli e il loro disagio esplode in forme che assumono comportamenti pregiudizievoli.

Lei è giudice presso tribunale per i minorenni, nel settore civile. Il suo è un osservatorio privilegiato sul sostrato culturale che poi rischia di produrre la patologia penale.

Il tribunale per i minorenni è così importante perché interviene proprio con funzione di supporto e sostegno alle famiglie, così da tentare di anticipare o prevenire future derive peggiori, che portino il ragazzo a entrare nel circuito penale, prescrivendo la presa in carico dell’intera famiglia con interventi di supporto e di sostegno focalizzati sia sui ragazzi che sui genitori. Eppure io posso scrivere i provvedimenti più utili del mondo, ma se i servizi territoriali non sono sufficienti, incidere per un cambiamento è impossibile.

Può fare degli esempi?

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Se ho davanti un ragazzino difficile, provvedo a chiedere ai servizi sociali di fornire sostegno alla famiglia e, per esempio, impongo a lui l’obbligo di prendere parte alle attività nei centri diurni di aggregazione giovanile. Se però il territorio non ha il centro, oppure i sono già 20 ragazzi in lista d’attesa, quelli che restano fuori continuano a passare i loro pomeriggi in strada senza niente da fare. Arginare i fenomeni di disagio minorile non è solo una questione di giustizia ma sociale: occorre un servizio territoriale dotato di risorse, non solo competente.

Che consiglio darebbe ai genitori di questi ragazzi?

Di non pensare che, se vedono il loro figlio cresciuto dal punto di

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