la caduta di Assad e il nuovo governo di transizione

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Il rovesciamento del regime baathista siriano lo scorso 8 dicembre 2024 pone una serie di domande. Perché il dominio della famiglia Assad, al potere dal 1967, è caduto proprio adesso, e in modo così inaspettato e veloce? Quali sono ora le prospettive per il paese, dopo quasi mezzo secolo di dittatura e oltre tredici anni di guerra civile? Quali sono le ripercussioni a livello regionale e internazionale? Sono questioni chiaramente connesse tra di loro. Proponiamo qui un’analisi in due parti sulla questione siriana, ancora in piena evoluzione. In questa prima riflessione, poniamo innanzitutto gli eventi di queste settimane in una prospettiva storica, per poi concentrarci sulla transizione sotto il nuovo regime. Nella seconda parte, analizzeremo le dinamiche internazionali per capire le sfide che attendono la Siria.

Origine del regime e guerra civile

Il defunto regime siriano si reggeva su di un partito, il Baath, di ispirazione arabo-nazionalista, laico e socialista. Era stato uno dei movimenti politici più importanti nella regione durante la fase post-coloniale, arrivando al potere non solo in Siria, nel 1963, ma anche nel vicino Iraq. In Siria, con un colpo di mano interno al regime, Hafez al-Assad, allora ministro della difesa, diventò presidente nel 1967. Instaurò così una dittatura che si appoggiava sulla comunità alawita da cui proveniva. Gli alawiti sono una setta all’interno del mondo islamico, vicina allo sciismo. Concentrati nelle regioni occidentali costiere del paese, rappresentano circa il 12% della popolazione siriana. Alla morte di Hafez, suo figlio Bashar ne prese il posto: una successione dinastica all’interno di quello che era tecnicamente un sistema repubblicano. Il potere del clan Assad, del partito Baath che guidava, e delle altre due istituzioni su cui si reggeva il regime – esercito e burocrazia – viene scosso alle fondamenta con la Primavera Araba del marzo 2011. La reazione alle proteste di piazza che chiedono pluralismo, aperture politiche e fine dello stato di polizia è violenta e brutale. Inizia una sanguinosa guerra civile che farà oltre mezzo milione di morti, circa due milioni di feriti, e rende rifugiati, all’interno della Siria stessa o all’estero, quasi metà dei 25 milioni di abitanti del paese.

In questo contesto intervengono potenze regionali e internazionali ora per supportare Assad – Iran e Russia – ora per rimuoverlo – Turchia, stati del Golfo, più timidamente gli USA. Interventi che si inseriscono in un contesto locale segnato da divisioni comunitarie (sunniti, alawiti, cristiani, drusi, armeni), etniche (arabi e curdi), e ideologiche (baathisti, forze democratiche, islamisti). Gli oppositori del regime danno vita a formazioni politiche spesso affiancate da milizie armate. Queste sono in genere espressione della maggioranza sunnita del paese: ma è una semplificazione non sempre accurata. Similmente, le fazioni pro-governative, appoggiate spesso, ma non sempre, dalle minoranze alawite e cristiane, coadiuvano un esercito nazionale e servizi segreti che continuano ad operare in modo sempre più repressivo.
Le milizie delle varie fazioni dell’opposizione prendono controllo di alcune aree del paese nel corso della guerra. Per esempio, i Curdi delle Forze Democratiche Siriane (FDS), vicini agli Americani ma invisi ai Turchi, arrivano a godere di una indipendenza de facto nel nord est del paese (un esperimento politico noto come ‘Rojava’). La più famigerata di tali formazioni antigovernative fu lo Stato Islamico (ISIS), che tentò di ridisegnare la mappa del Medioriente tra il 2011 e il 2017. All’epoca, il comandante in capo dell’ISIS, Abu Bakr Al Baghdadi, chiese ad un’altra formazione-ombrello jihadista, Jabhat al Nusra (‘Fronte della Conquista’), di riconoscere la sua autorità quale califfo. Il comandante di Jabhat al Nusra, Abu Muhammad Al Julani, si rifiutò però di offrire ‘ba’ya’, ovvero giuramento di fedeltà all’ISIS. Si schierò con Al Qaeda, all’epoca sotto la guida di Ayman Al Zawahiri. Al Julani creò un proprio ridotto nella regione di Idlib, nell’estremo nord ovest del paese, al confine con la Turchia. La quale, sempre preoccupata dal problema curdo, invase ed occupò una serie di corridoi nel nord della Siria per separare le formazioni curde siriane dal Partito Curdo dei Lavoratori (PKK), nemico giurato di Ankara che opera in Turchia.

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Clicca per ingrandire – Combattimenti fra i principali gruppi armati in Siria prima della caduta di Assad

La caduta di Assad

Dal 2020 queste coordinate territoriali non erano fondamentalmente cambiate. Il regime era sopravvissuto solo in virtù di un massiccio aiuto militare, logistico e politico da parte di Russia e Iran. Dal 2015, Mosca aveva bombardato, senza discrimine alcuno per i civili, aree che resistevano al controllo degli Assad, asserragliati a Damasco. Così facendo, proteggeva un alleato storico dai tempi dell’Unione Sovietica, il quale aveva concesso basi chiavi sul territorio siriano a marina e aviazione russa (le uniche basi che la Russia poteva vantare al di fuori dei confini ex-sovietici). L’Iran inviò invece consiglieri e forze speciali dei Pasdaran; soprattutto mobilitò gli Hezbollah libanesi per dar man forte al regime. Gli USA, da parte loro, continuavano ad essere presenti con quasi mille uomini nel Rojava, riconoscendo i Curdi quali alleati affidabili e forza chiave, sul terreno, per la sconfitta militare dell’ISIS. Situazione questa che non piaceva certo alla Turchia, comunque presente a nord e in buoni rapporti con il gruppo di Al-Jolani a Idlib. Gruppo che nel frattempo aveva reciso ogni legame formale con Al Qaeda, cambiando pure nome in Comitato per la Liberazione del Levante, o Ha’iat Tahrir ash-Sham (HTS).

L’invasione russa dell’Ucraina e il conflitto a Gaza hanno fatto precipitare la situazione in Siria. Quel che rimaneva del regime Baathista era ormai arroccato intorno al clan Assad e fondamentalmente privo di qualsiasi legittimità, anche presso vasti settori della comunità alawita. Era tenuto in vita dall’assicurazione che Russia, Iran, e quindi gli Hezbollah, sarebbero intervenuti in suo soccorso in caso di bisogno. Ma la Russia stava destinando tutte le sue energie nello sforzo bellico in Europa. Hezbollah, al redde rationem con Israele, aveva visto decapitata tra aprile e settembre 2024 l’intera leadership, incluso il capo storico Hassan Nasrallah; e aveva poi assistito impotente ad una serie di attacchi israeliani in territorio libanese come non si vedeva dal 2006. In ultimo, l’Iran perdeva proprio con Hezbollah la sua carta migliore nel conflitto contro Israele. Questo proprio mentre un crescendo di scontri con Tel Aviv metteva alla luce le sue deficienze strutturali in un confronto militare con l’IDF.
Ad osservatori attenti però non era sfuggito come HTS non fosse rimasto nel frattempo con le mani in mano. In un rapporto dell’agosto 2024, il German Institute for Global Area Studies sottolineava come Al Jolani avesse rafforzato la propria leadership, purgando l’organizzazione degli elementi più radicali e meno pragmatici, migliorando la catena di comando militare e l’amministrazione della regione di Idlib. Il tutto, beninteso, esercitando un potere autoritario, senza particolari riguardi per libertà civili o politiche.
A fine novembre, HTS lanciò un’incursione verso Aleppo, seconda città del paese. L’obiettivo non era chiaro: probabilmente si voleva testare quale fosse, effettivamente, la consistenza del regime e dei suoi alleati, così come la volontà dei soldati e delle milizie ancora fedeli ad Assad di combattere. Con enorme sorpresa, HTS entrò ad Aleppo quasi senza sparare un colpo. Nessuno oppose resistenza: né l’esercito regolare di Assad, né i suoi alleati.
Era l’inizio della fine per il regime. In poco più di una settimana, HTS, raccogliendo nel frattempo altri gruppi antiregime, prese Homs e Hama, terzo e quarto centro del paese lungo l’autostrada M5 che unisce Damasco nel Sud ad Aleppo nel nord. L’8 dicembre, Al Jolani entra a Damasco, ancora una volta senza combattere. Gli Assad fuggono a Mosca.

Fonte: Syrian Network for Human Rights – Statista

Paura islamista e speranza democratica

Con la presa di Damasco, HTS si pone come nuovo governo della Siria, al netto dei territori ancora sotto controllo dell’FDS e della Turchia. Si teme che, essendo fondamentalmente un gruppo salafita-jihadista, costola di Al Qaeda, vi possa essere una riedizione del sedicente califfato ISIS, che aveva avuto proprio nel nord est della Siria, a Raqqa, la sua capitale. Se la caduta di Assad era condizione necessaria per pensare ad una Siria pluralista e democratica, non era per niente detto che HTS potesse essere una forza politica desiderosa o capace di condurre tale transizione. Quanto visto a Idlib suggeriva che, sebbene lontano dagli eccessi indiscriminati dell’ISIS, HTS rimaneva comunque un gruppo radicale.
Tuttavia, in questi primi due mesi, le coordinate ideologiche del salafismo-jihadista non sembrano informare l’azione della nuova leadership in modo significativo. Al Jolani, abbandonato il suo nom de guerre, è ora Ahmed Al Shar’a. Ha presto svestito la mimetica con cui la folla lo vide entrare nella moschea degli Omayyadi e nel suq ottomano di Hamid II, nel meraviglioso centro storico di Damasco: ha subito parlato, in giacca e cravatta, di una Siria pluralista, dove ogni comunità avrebbe trovato rappresentazione e protezione. Non ha rilasciato dichiarazioni bellicose né contro gli USA, nemico classico del jihadismo, né tantomeno contro Israele (il quale, è bene ricordare, ha invaso proprio in quei giorni porzioni di territorio siriano e distrutto, bombardando, quel che rimaneva dell’esercito siriano). Ha già tenuto numerose interviste con giornalisti, e incontri ufficiali con diplomatici di vari paesi chiave (inclusi Turchia e Arabia Saudita). Alcune risposte, specie sulla condizione della donna e il suo ruolo nella nuova Siria, sono state evasive: anzi, preoccupanti quando il suo braccio destro ha affermato che le donne non dovrebbero avere posizioni di rilievo politico; né le imposizioni, a Idlib, di indumenti rispondenti all’interpretazione salafita dell’Islam (interpretazione per altro largamente minoritaria in Siria).

Allo stesso tempo, Al Shar’a ha ordinato lo scioglimento dell’esercito baathista e dei servizi segreti del regime; e disposto che ogni milizia armata sul territorio nazionale, inclusa HTS, abbandonasse le armi. Due passaggi chiave per terminare effettivamente la guerra civile e ricostituire il sistema della sicurezza interna. Si preparano un nuovo censimento della popolazione (invitando anche i rifugiati a tornare), la redazione di una nuova costituzione, e nuove elezioni. Le tempistiche lasciano peraltro perplessi: 3 anni per la costituzione, 4 per le elezioni. Secondo molti siriani, troppi: nel frattempo, con quale legittimazione, quali metodi – e quali garanzie – opererà il governo provvisorio di Al Shar’a? Il quale, il 29 gennaio, ha assunto la carica di presidente ad interim, ufficializzando la sua posizione quale leader di fatto del paese.
Luci e ombre: paure e speranze. La fine di una delle dittature più brutali del Medio Oriente non può che essere vista come un fatto positivo. Sul futuro della Siria giocheranno un ruolo fondamentale non solo il nuovo governo, ma anche attori e dinamiche internazionali. Nella seconda parte di questa analisi volgeremo la nostra attenzione su di essi.

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