SOMMARIO: 1. Massima. 2. Il fatto. 3. La decisione. 4. Conclusioni.
Massima
Non possono, essere valutate ai fini della riconducibilità del proposto alla categoria tipica di riferimento, quelle condotte che il giudice penale ha ritenuto atipiche o addirittura insussistenti in fatto o in diritto.
Il fatto
La Corte di appello di Bari ha rigettato il ricorso proposto avverso il decreto del 22 marzo 2023, con cui il Tribunale di Bari aveva disposto la confisca di vari beni (denaro e diversi oggetti preziosi) nei confronti del prevenuto. Quest’ultimo era stato giudicato socialmente pericoloso ai sensi degli artt. 1, lett. b) e 4 lett. c) del d.lgs. n. 159 del 2011 (codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) in quanto persona che, per la condotta ed il tenore di vita, deve ritemersi viva abitualmente, anche solo in parte, con i proventi di attività delittuose.
Avverso il decreto il ricorrente articolava diversi motivi.
In primo luogo, per quanto qui di interesse, il ricorrente si doleva della violazione di legge sul giudizio di pericolosità sociale. In particolare, si contestava che la Corte territoriale avesse valorizzato sentenze di assoluzione e di proscioglimento per prescrizione quali elementi di fatto da cui affermare che i reati ascritti al proposto avessero generato profitti illeciti integrando una condotta abituale e costituendo unica fonte di profitto del medesimo.
Il ricorrente lamentava, inoltre, violazione di legge in relazione alla perimetrazione temporale della pericolosità, che avrebbe dovuto circoscriversi al più agli anni 2016 e 2017.
La decisione
La Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato, annullando con rinvio, in relazione ai due motivi di ricorso summenzionati, il decreto impugnato.
La Corte sottolinea come i temi evidenziati dal ricorrente, ossia il giudizio di pericolosità generica e la sua perimetrazione temporale, sono strettamente connessi tra loro.
Attraverso il richiamo alla pronuncia delle Sezioni Unite Spinelli (Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2014, dep. 2 febbraio 2015, n. 4880, ric. Spinelli e altro), i giudici di legittimità ribadiscono che la pericolosità sociale non è solo presupposto ineludibile di applicazione della misura ma anche misura temporale del suo ambito applicativo. Ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come di regola accade, l’intero percorso esistenziale del proposto o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato.
Successivamente, la Corte costituzionale con la pronuncia n. 24 del 2019 (Corte cost., sent. 24 gennaio 2019, dep. 27 febbraio 2019), ha chiarito come debbano essere intese le fattispecie di pericolosità generica. In particolare, per quanto qui di interesse, ha statuito che ai fini dell’applicazione dell’art. 1, lett. b) cod. antimafia, il giudice della prevenzione deve individuare la perimetrazione cronologica della pericolosità sociale, al fine di stabilire la correlazione temporale tra pericolosità ed acquisto dei beni e deve accertare che si tratti di attività delittuose capaci di produrre reddito e non di condotte genericamente devianti o denotanti un semplice avvicinamento a contesti delinquenziali. Il giudice deve, pertanto, ricostruire l’entità, la valenza, l’effettiva derivazione di profitto illecito, la capacità di denotare serialità e dunque l’attitudine dei reati ad integrare una sequenza suscettibile di determinare l’acquisizione di un profitto illecito.
Svolte tali premesse, la Suprema Corte giunge all’esame del caso di specie dichiarando di non condividere le conclusioni cui era pervenuta la Corte territoriale.
Quest’ultima aveva fatto applicazione del c.d. principio di autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, in base al quale il giudice può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2 c.p.p., qualora risultino delineati, con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività, quei fatti che, pur ritenuti insufficienti – nel merito o per preclusioni processuali -per una condanna penale, possono, comunque, essere posti alla base di un giudizio di pericolosità (così, Cass., Sez. I, 7.1.2016, n. 6636; Cass., Sez. II, 13.4. 2023, n. 15704; Cass., Sez. II, 7.2.2022, n. 4191; Cass., Sez. II, 9.9. 2021, n. 33533; Cass., Sez. II, 17.7.2019, n.31549).
I giudici di legittimità ritengono, invece, di accogliere un diverso filone ermeneutico, in base al quale attribuire valenza di pericolosità nel giudizio di prevenzione a fatti ritenuti con sentenza penale irrevocabile insussistenti o non attribuibili al proposto sia in evidente frizione con la presunzione di innocenza ex art. 6, comma 2, CEDU. Infatti, la Corte EDU ha riconosciuto che, mentre l’art. 27 della Costituzione si riferisce soltanto al sistema processuale penale, l’art. 6, comma 2, della Conv. EDU attiene a qualsiasi accusa di un reato, anche estranea ad una accusa penale e persino ad un procedimento giurisdizionale (così, Corte e.d.u., Grande Camera, 12.7.2013, Allen v. Regno Unito; Corte e.d.u., Sez. III, 1.3.2007, Geerings v. Paesi Bassi; Corte e.d.u., Sez. III,20.10.2020, Pasquini v. San Marino).
Pertanto, il principio di innocenza deve intendersi come regola non solo di giudizio, ma anche di trattamento e quindi si estende a tutti i procedimenti ulteriori rispetto al proscioglimento dell’accusato in sede penale, imponendo un divieto a pubblici ufficiali e autorità di trattare il soggetto assolto come se fosse effettivamente colpevole del reato a lui imputato, pena la violazione sostanziale del principio convenzionale.
Secondo l’interpretazione avallata dalla Corte di Strasburgo, l’art. 6, comma 2, della Conv. EDU attiene, per la sua generale formulazione, a qualsiasi accusa di un reato – anche estranea ad una accusa penale e persino ad un procedimento giurisdizionale – e il suo campo di applicazione si estende a tutti i procedimenti ulteriori rispetto al proscioglimento definitivo dell’accusato, quando le questioni sollevate in queste procedure costituiscono un corollario ed un complemento dei procedimenti penali in questione nell’ambito dei quali il ricorrente aveva la qualità di accusato.
Pertanto, ad opinione dei giudici di legittimità, una volta che una sentenza di proscioglimento è diventata definitiva – anche se si tratta di un proscioglimento con il beneficio del dubbio
conformemente all’articolo 6, comma 2, – esprimere dubbi sulla colpevolezza, compresi quelli basati sui motivi del proscioglimento, non è compatibile con la presunzione di innocenza. In effetti, decisioni giudiziarie successive o dichiarazioni che emanano da autorità pubbliche possono porre un problema dal punto di vista dell’articolo 6 § 2 se equivalgono ad una constatazione di colpevolezza che disconosce, deliberatamente, il precedente proscioglimento dell’accusato” (in questo senso, Corte e.d.u., Sez. II, 10.4.2012, Lorenzetti v. Italia; Corte e.d.u., 9.11. 2004, Del Latte v. Paesi Bassi).
Pertanto, nell’ottica della Corte EDU, allo scopo di garantire effettività al diritto garantito dall’art. 6, comma 2, Conv. e.d.u., occorre evitare che i soggetti che hanno beneficiato di un’assoluzione o di una sospensione delle imputazioni vengano trattati da pubblici ufficiali o autorità come se fossero effettivamente colpevoli del reato loro imputato.
Invero, ove non si predisponesse tale forma di tutela, le garanzie di cui all’art. 6 par. 2 CEDU rischierebbero di diventare puramente teoriche.
In tale prospettiva, ogniqualvolta si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 6, comma 2, Conv. EDU nell’ambito di un procedimento successivo, è fondamentale la dimostrazione di un nesso tra il tra il procedimento penale concluso e l’azione giudiziaria susseguente, un nesso che può consistere anche nei collegamenti processuali, quale quello di aver esaminato gli atti del fascicolo principale ed avere fondato la decisione successiva proprio sul contenuto di tale decisione.
In sintesi, la Cassazione argomenta che presunzione di innocenza significa impedire che i soggetti che hanno beneficiato di un’assoluzione siano trattati da pubblici ufficiali o da altre autorità come se fossero di fatto colpevoli dei reati di cui sono stati accusati: la presunzione di innocenza esige che si tenga conto, in ogni procedimento successivo, di qualsiasi natura, del fatto che l’interessato non sia stato condannato e che in tale prospettiva, le espressioni utilizzate dall’autorità giudicante sono di fondamentale importanza.
Perciò, la sentenza in esame osserva che non solo l’accusa nel procedimento penale e quella nel procedimento di prevenzione si fondano sulla medesima contestazione in fatto, in quanto entrambi i procedimenti presuppongono, in via diretta o indiretta, la responsabilità penale relativa ad un reato ma che, nel caso in cui il proposto sia stato sottoposto a procedimento penale, la condanna per delitto costituisce il presupposto stesso dell’applicazione della misura di prevenzione e, applicando il principio della Corte EDU ne deriva che una volta che una sentenza di assoluzione è diventata definitiva – anche se si trattasse di assoluzione con il beneficio del dubbio – non è solo lesivo del principio di non contraddizione dell’ordinamento assumere un fatto, negato dalla sentenza di assoluzione, come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità ma che è incompatibile con il principio di presunzione di innocenza che decisioni giudiziarie successive disconoscano deliberatamente il precedente proscioglimento dell’accusato.
Ne discende che non possono essere valutate, ai fini della riconducibilità del proposto alla categoria tipica di riferimento, quelle condotte che il giudice penale nell’esercizio della sua funzione cognitiva ha ritenuto non conformi al tipo o addirittura insussistenti nella loro dimensione fattuale o giuridica.
Conclusioni
La Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato, annullando con rinvio, in relazione ai due motivi di ricorso summenzionati, il decreto impugnato.
La Corte sottolinea come i temi evidenziati dal ricorrente, ossia il giudizio di pericolosità generica e la sua perimetrazione temporale, sono strettamente connessi tra loro.
Attraverso il richiamo alla pronuncia delle Sezioni Unite Spinelli (Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2014, dep. 2 febbraio 2015, n. 4880, ric. Spinelli e altro), i giudici di legittimità ribadiscono che la pericolosità sociale non è solo presupposto ineludibile di applicazione della misura ma anche misura temporale del suo ambito applicativo. Ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come di regola accade, l’intero percorso esistenziale del proposto o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazione tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato.
Successivamente, la Corte costituzionale con la pronuncia n. 24 del 2019 (Corte cost., sent. 24 gennaio 2019, dep. 27 febbraio 2019), ha chiarito come debbano essere intese le fattispecie di pericolosità generica. In particolare, per quanto qui di interesse, ha statuito che ai fini dell’applicazione dell’art. 1, lett. b) cod. antimafia, il giudice della prevenzione deve individuare la perimetrazione cronologica della pericolosità sociale, al fine di stabilire la correlazione temporale tra pericolosità ed acquisto dei beni e deve accertare che si tratti di attività delittuose capaci di produrre reddito e non di condotte genericamente devianti o denotanti un semplice avvicinamento a contesti delinquenziali. Il giudice deve, pertanto, ricostruire l’entità, la valenza, l’effettiva derivazione di profitto illecito, la capacità di denotare serialità e dunque l’attitudine dei reati ad integrare una sequenza suscettibile di determinare l’acquisizione di un profitto illecito.
Svolte tali premesse, la Suprema Corte giunge all’esame del caso di specie dichiarando di non condividere le conclusioni cui era pervenuta la Corte territoriale.
Quest’ultima aveva fatto applicazione del c.d. principio di autonomia tra processo penale e procedimento di prevenzione, in base al quale il giudice può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 159 del 2011, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2 c.p.p., qualora risultino delineati, con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività, quei fatti che, pur ritenuti insufficienti – nel merito o per preclusioni processuali -per una condanna penale, possono, comunque, essere posti alla base di un giudizio di pericolosità (così, Cass., Sez. I, 7.1.2016, n. 6636; Cass., Sez. II, 13.4. 2023, n. 15704; Cass., Sez. II, 7.2.2022, n. 4191; Cass., Sez. II, 9.9. 2021, n. 33533; Cass., Sez. II, 17.7.2019, n.31549).
I giudici di legittimità ritengono, invece, di accogliere un diverso filone ermeneutico, in base al quale attribuire valenza di pericolosità nel giudizio di prevenzione a fatti ritenuti con sentenza penale irrevocabile insussistenti o non attribuibili al proposto sia in evidente frizione con la presunzione di innocenza ex art. 6, comma 2, CEDU. Infatti, la Corte EDU ha riconosciuto che, mentre l’art. 27 della Costituzione si riferisce soltanto al sistema processuale penale, l’art. 6, comma 2, della Conv. EDU attiene a qualsiasi accusa di un reato, anche estranea ad una accusa penale e persino ad un procedimento giurisdizionale (così, Corte e.d.u., Grande Camera, 12.7.2013, Allen v. Regno Unito; Corte e.d.u., Sez. III, 1.3.2007, Geerings v. Paesi Bassi; Corte e.d.u., Sez. III,20.10.2020, Pasquini v. San Marino).
Pertanto, il principio di innocenza deve intendersi come regola non solo di giudizio, ma anche di trattamento e quindi si estende a tutti i procedimenti ulteriori rispetto al proscioglimento dell’accusato in sede penale, imponendo un divieto a pubblici ufficiali e autorità di trattare il soggetto assolto come se fosse effettivamente colpevole del reato a lui imputato, pena la violazione sostanziale del principio convenzionale.
Secondo l’interpretazione avallata dalla Corte di Strasburgo, l’art. 6, comma 2, della Conv. EDU attiene, per la sua generale formulazione, a qualsiasi accusa di un reato – anche estranea ad una accusa penale e persino ad un procedimento giurisdizionale – e il suo campo di applicazione si estende a tutti i procedimenti ulteriori rispetto al proscioglimento definitivo dell’accusato, quando le questioni sollevate in queste procedure costituiscono un corollario ed un complemento dei procedimenti penali in questione nell’ambito dei quali il ricorrente aveva la qualità di accusato.
Pertanto, ad opinione dei giudici di legittimità, una volta che una sentenza di proscioglimento è diventata definitiva – anche se si tratta di un proscioglimento con il beneficio del dubbio
conformemente all’articolo 6, comma 2, – esprimere dubbi sulla colpevolezza, compresi quelli basati sui motivi del proscioglimento, non è compatibile con la presunzione di innocenza. In effetti, decisioni giudiziarie successive o dichiarazioni che emanano da autorità pubbliche possono porre un problema dal punto di vista dell’articolo 6 § 2 se equivalgono ad una constatazione di colpevolezza che disconosce, deliberatamente, il precedente proscioglimento dell’accusato” (in questo senso, Corte e.d.u., Sez. II, 10.4.2012, Lorenzetti v. Italia; Corte e.d.u., 9.11. 2004, Del Latte v. Paesi Bassi).
Pertanto, nell’ottica della Corte EDU, allo scopo di garantire effettività al diritto garantito dall’art. 6, comma 2, Conv. e.d.u., occorre evitare che i soggetti che hanno beneficiato di un’assoluzione o di una sospensione delle imputazioni vengano trattati da pubblici ufficiali o autorità come se fossero effettivamente colpevoli del reato loro imputato.
Invero, ove non si predisponesse tale forma di tutela, le garanzie di cui all’art. 6 par. 2 CEDU rischierebbero di diventare puramente teoriche.
In tale prospettiva, ogniqualvolta si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 6, comma 2, Conv. EDU nell’ambito di un procedimento successivo, è fondamentale la dimostrazione di un nesso tra il tra il procedimento penale concluso e l’azione giudiziaria susseguente, un nesso che può consistere anche nei collegamenti processuali, quale quello di aver esaminato gli atti del fascicolo principale ed avere fondato la decisione successiva proprio sul contenuto di tale decisione.
In sintesi, la Cassazione argomenta che presunzione di innocenza significa impedire che i soggetti che hanno beneficiato di un’assoluzione siano trattati da pubblici ufficiali o da altre autorità come se fossero di fatto colpevoli dei reati di cui sono stati accusati: la presunzione di innocenza esige che si tenga conto, in ogni procedimento successivo, di qualsiasi natura, del fatto che l’interessato non sia stato condannato e che in tale prospettiva, le espressioni utilizzate dall’autorità giudicante sono di fondamentale importanza.
Perciò, la sentenza in esame osserva che non solo l’accusa nel procedimento penale e quella nel procedimento di prevenzione si fondano sulla medesima contestazione in fatto, in quanto entrambi i procedimenti presuppongono, in via diretta o indiretta, la responsabilità penale relativa ad un reato ma che, nel caso in cui il proposto sia stato sottoposto a procedimento penale, la condanna per delitto costituisce il presupposto stesso dell’applicazione della misura di prevenzione e, applicando il principio della Corte EDU ne deriva che una volta che una sentenza di assoluzione è diventata definitiva – anche se si trattasse di assoluzione con il beneficio del dubbio – non è solo lesivo del principio di non contraddizione dell’ordinamento assumere un fatto, negato dalla sentenza di assoluzione, come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità ma che è incompatibile con il principio di presunzione di innocenza che decisioni giudiziarie successive disconoscano deliberatamente il precedente proscioglimento dell’accusato.
Ne discende che non possono essere valutate, ai fini della riconducibilità del proposto alla categoria tipica di riferimento, quelle condotte che il giudice penale nell’esercizio della sua funzione cognitiva ha ritenuto non conformi al tipo o addirittura insussistenti nella loro dimensione fattuale o giuridica.
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