Tiziana Ciriotti, la hostess uccisa nell’inferno (senza giustizia) della Moby Prince. «La nostra Ustica del mare»

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di
Federico Ferrero

Il 10 aprile 1991 nella rada del porto di Livorno il traghetto si scontrò con una petroliera. Tra le 140 vittime, una hostess di Monastero Bormida

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Una classica ragazza piemontese degli anni Novanta, Tiziana. Il papà, Ercole, costruiva rimorchi per trattori; la mamma, Anna Maria, si occupava della casa, di lei e del fratello maggiore, Massimo. Tutte le estati con la famiglia si spostava a Diano Marina, per unirsi alla compagnia del mare. Le piaceva pensare a una vita di viaggi e di spostamenti, l’idea di rimanere nel paesino dell’Astigiano in cui era nata, Monastero Bormida, non la attirava molto. Non era destinata a lavorare nell’azienda di famiglia; l’estate precedente la tragedia aveva sfruttato il periodo di ferie per una vacanza studio in Inghilterra perché intendeva migliorare il suo inglese.

L’annuncio di lavoro

Nel giugno del 1990, Tiziana Ciriotti aveva risposto a un annuncio di lavoro. Si trattava della Navarma e pareva proprio l’occasione ritagliata sulla misura dei suoi sogni: una chance d’oro per lei, che aveva studiato alla scuola superiore per operatori turistici di Acqui Terme e, nell’attesa di una chiamata del destino, si era impiegata in un negozio di vestiti. Non era il suo lavoro, quello stanziale in mezzo agli abiti in una boutique, ma si era fatta un sacco di amiche pure lì, coi suoi modi gentili e il sorriso contagioso. La sua migliore amica, Franca, che invece si era impiegata nell’officina Ciriotti, la ricordava come la più bella del paese, sempre di buon umore. Aveva un grande amore, Giuseppe, conosciuto sui banchi di scuola alle medie.




















































Sempre in viaggio

 L’ultima telefonata, Tiziana l’aveva fatta proprio a lei, poche ore prima dell’incrocio col fato: «Mi ha chiamato dalla stazione di Genova, il mercoledì pomeriggio. Abbiamo scherzato, era allegra, so che sarebbe tornata a casa dopo un mese». Quella vita con la valigia in mano le piaceva da pazzi ma, nella sua testa, sognava ancora più in grande: i transatlantici, le rotte intercontinentali. Il suo nuovo datore di lavoro, ai giorni nostri, è noto con un altro nome ma ai tempi era Navarma, acronimo di Navigazione Arcipelago Maddalenino. Una piccola attività di famiglia, nata in Toscana negli anni Cinquanta e diventata, nel tempo, un robusto riferimento per il trasporto locale, con rotte sempre nuove: dai primi collegamenti tra Piombino e Portoferraio alla Livorno-Bastia, la La Spezia-Bastia e la Livorno-Olbia. Dopo aver inviato il curriculum e superato la selezione, Tiziana lavorava come hostess di bordo. Si imbarcava sulla Koningin Juliana e doveva gestire gli imbarchi e gli sbarchi, così come la sistemazione delle cabine, subordinata al commissario Umberto Bartolozzi.

La Moby Prince

Ecco: finché si parla di Koningin Juliana, oppure di Navarma, quasi nessuno intende. Tutt’altra storia è riferire il nome che assunse quel traghetto passeggeri una volta che venne comprato dall’azienda italiana dalla compagnia olandese Stoomvaart a metà anni Ottanta, o il nome stesso assunto in tempi più recenti dalla compagnia: Moby. Il traghetto, quello che Tiziana chiamava con orgoglio «la mia nave», era la Moby Prince. Una motonave di centotrenta metri, capace caricare su di sé millecinquecento persone e centinaia di veicoli. Dentro, una piccola città con ristorante, negozietti, discoteca, sala giochi. Tiziana aveva firmato il suo contratto con la malasorte e non lo sapeva. Invece, alle sette del mattino dell’11 aprile 1991, il mattino successivo alla partenza di Tiziana per Livorno, un nostromo della Navarma telefonò a casa Ciriotti. Era amico di Tiziana e, sebbene fosse in licenza, aveva appena saputo dei fatti del porto. Voleva anzitutto sapere se Tiziana fosse a casa: no, non lo era. Al giovane, quindi, toccò avvertire il fratello di Tiziana che era capitato un incidente devastante: «La nave è bruciata, sono tutti dispersi». 

Lo schianto e il rogo

Era successo che la sera precedente, verso le ventidue e trenta, il traghetto aveva lasciato gli ormeggi quando, ancora nella rada del porto, si era scontrato con una petroliera, la Agip Abruzzo. La prua della Moby Prince aveva squarciato una cisterna di greggio della Abruzzo, la numero sette, innescando un terribile incendio. Quasi trecento metri caricati con più di ottantamila tonnellate di petrolio: come una spada conficcata in una bombola di gas, si era scatenata l’apocalisse. Quella notte, da Monastero Bormida era partita l’auto del fidanzato e del fratello di Tiziana, nella speranza che non tutto fosse perduto.

I dubbi che ancora ci sono

Invece sì, era tutto perduto. Nel disastro della Moby Prince morirono tutte salvo una persona, il mozzo Alessio Bertrand. La chiamarono la Ustica del mare, una delle peggiori tragedie di sempre nella marina mercantile in Italia. Non solo per il prezzo umano ma anche per la difficoltà di trovare una verità: di chi era stata la responsabilità? Perché i soccorsi alla Moby erano stati tanto intempestivi? Dopo più di trent’anni, è tuttora al lavoro una (terza) commissione di inchiesta parlamentare, per tentare di chiarire i fatti, dopo che la seconda, nel 2022, arrivò ad affermare che «il traghetto della Navarma si trovò davanti a un peschereccio d’altura somalo e fu costretto a una drammatica manovra, finendo contro la petroliera Agip Abruzzo». Tiziana venne trovata nello spazio che divideva il salone Deluxe, dove il comandante aveva radunato molte persone nella consapevolezza che fosse il posto ragionevolmente più sicuro per proteggersi dalle fiamme, dal corridoio delle cabine di seconda classe. Il suo corpo fu contrassegnato con il numero quarantasei.

L’addio

Durante il funerale, tanto era lo sconforto che neppure il parroco resse al compito di consolare un paese disperato e dovette più volte interrompere l’omelia, vinto dalle lacrime. L’aveva battezzata, comunicata e cresimata, quella ragazza; poté solo dire, rivolto alla famiglia Ciriotti, che la fede in Dio li avrebbe aiutati a capire il grande mistero della morte: perché lui, come ogni altro umano, non era in grado di dipanarlo. A Monastero, quel giorno di aprile, c’erano tutti: i parenti e gli amici di sempre, il personale dell’agenzie che la impiegava in inverno per le settimane bianche, i commercianti di Acqui, la leva dei ragazzi del 1968, il sindaco. Del suo passaggio su questo mondo resta la foresteria Ciriotti, un salone nel castello medievale di Monastero Bormida; e poi un ospedale, costruito nel 1993 con i fondi raccolti da parenti e amici in Tanzania e tuttora in funzione. I sogni e i progetti di una ragazza di ventidue anni, che aveva lasciato il paese per inseguire la sua fame di mondo, si sono persi per sempre, inceneriti in quell’inferno senza giustizia

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4 febbraio 2025 ( modifica il 4 febbraio 2025 | 07:09)

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