Jenin non riesce a seppellire i morti. Ventimila palestinesi sfollati

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«Le famiglie hanno paura a seppellire i propri casi nel cimitero del campo perché i cecchini israeliani sono nascosti sui tetti degli edifici più alti». Mahmoud al-Saadi, direttore dei servizi di emergenza di Jenin spiega ad al Jazeera perché, a due settimane dall’inizio dell’operazione militare israeliana «Muro di ferro», tanti cadaveri non siano stati ancora seppelliti. Undici corpi sono ancora conservati nell’obitorio di uno degli ospedali della città cisgiordana.

Chi riesce a seppellire i propri cari lo deve fare velocemente, senza commemorazioni collettive così come ordinato dall’esercito israeliano (vietate le processioni, ai funerali autorizzata la presenza di solo due familiari). Un peso in più: i funerali sono uno dei modi a cui da sempre le comunità palestinesi ricorrono per fare della morte un atto di resistenza comune e di condivisione del dolore.

SONO 30 I PALESTINESI uccisi a Jenin dal 21 gennaio, dall’inizio di «Muro di Ferro». Erano trascorsi appena due giorni dall’inizio della tregua a Gaza. Settanta le vittime totali in tutta la Cisgiordania, che si sommano a 380 persone fatte prigioniere da nord a sud, poco meno dei detenuti liberati nei quattro scambi di ostaggi finora realizzati tra Hamas e Israele.

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La Cisgiordania è in fiamme. Dalla Striscia la potenza bellica israeliana ha trasferito qui le pratiche militari: l’uso dell’aviazione, le esplosioni nel cuore dei campi profughi di Jenin (come quelle di domenica a Jenin: colonne di fumo, una dietro l’altra, 23 case sbriciolate), la devastazione delle infrastrutture con decine di migliaia di persone senza acqua ed elettricità, lo sfollamento forzato (20mila palestinesi solo a Jenin, per 3.420 famiglie) prospettano in una dimensione ridotta gli stessi obiettivi del genocidio di Gaza, rendere quei luoghi invivibili. Un centinaio, dice l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi Unrwa, gli edifici distrutti nell’ultimo fine settimana. Tredici scuole gestite dall’Unrwa sono chiuse, 5mila bambini non seguono le lezioni.

Le operazioni proseguono anche altrove, da Tammoun a Tulkarem, mentre nel profondo sud della Cisgiordania occupata, a Masafer Yatta, ad agire sono ancora i coloni: la notte scorsa si sono registrati attacchi combinati contro diverse piccole comunità palestinesi, i coloni hanno danneggiato cisterne d’acqua e automobili. A Tayasir, nel nord della Valle del Giordano, un palestinese vestito in uniforme e armato di M16 ha sparato a un checkpoint militare, due soldati sono stati uccisi e sei feriti. L’uomo, di cui non è stata diffusa l’identità, è stato ucciso.

La pressione è altissima. Sono tanti a vedere realizzate le peggiori previsioni, seppur ampiamente attese: violenze in Cisgiordania per puntellare quella che la Corte internazionale di Giustizia, a luglio, ha definito un’annessione di fatto. Che tregua è mai questa, se lo chiedono in molti. A Gaza la fragilità dell’accordo sta nell’impazienza dell’ultradestra israeliana che preme sul primo ministro Netanyahu per tornare all’offensiva dopo la fine della prima fase (42 giorni). La seconda resta vaga, ma per lo meno ieri se ne è iniziato a parlare: nel 17esimo giorno dal cessate il fuoco temporaneo, in ritardo di 24 ore sulla tabella di marcia, Hamas e Israele hanno avviato il negoziato a Doha, con i rispettivi team.

COSA NE SIA uscito, finora, non è stato reso noto; sul tavolo c’è quanto previsto a metà gennaio, liberazione dei restanti ostaggi e ritiro israeliano da Gaza e dal corridoio Philadelphia, al confine con l’Egitto. Nella Striscia intanto si continua ad aggiornare il bilancio delle vittime, anche se le bombe non cadono più.

Ieri sono stati recuperati altri 20 corpi dal cumulo di macerie senza fine apparente e due palestinesi sono morti per le ferite riportate nelle settimane scorse. Sono a oggi 47.540 i morti ufficiali, a cui si aggiunge un numero di dispersi non inferiore ai 10mila e quasi 112mila feriti.

A provocare nuove vittime è anche la carenza di medicine, equipaggiamento medico e cibo. Ieri Hamas ha accusato Israele di ostacolare l’ingresso di aiuti, così come previsto dall’accordo di gennaio, in particolare tende, gas da cucina e strumentazioni per rimuovere le macerie. I camion di aiuti umanitari in ingresso, denunciavano nei giorni scorsi svariate agenzie internazionali, è inferiore al previsto.

«Un accordo di cessate il fuoco è forte quanto lo è la sua capacità di portare risultati tangibili alla popolazione», scrive il giornalista palestinese Tareq Abu Azzoum da Rafah, in riferimento ai pazienti evacuati fuori da Gaza, ancora troppo pochi, considerando che almeno 14mila casi richiedono di essere trattati all’estero. A questo ritmo ci vorrebbe un anno intero.



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