Prima della visita del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu alla Casa bianca, il presidente degli Stati uniti Donald Trump ha dichiarato che i palestinesi non hanno «alcuna alternativa» se non quella di lasciare Gaza. Quando i due leader si sono incontrati nello Studio ovale, Trump ha detto che, una volta trasferiti i palestinesi della Striscia altrove, gli Stati uniti «ne assumeranno il controllo». Il presidente ha anche espresso il desiderio di trasformare il territorio occupato da Israele nella «Riviera del Medio Oriente».
Queste dichiarazioni surreali sono state pronunciate martedì, mentre i palestinesi di Gaza stanno affrontando la distruzione senza precedenti lasciata dall’esercito israeliano. Molti di coloro che sono stati sfollati e sono riusciti a tornare alle loro case nelle ultime due settimane hanno trovato solo rovine. Secondo le Nazioni unite, l’esercito israeliano ha bombardato il 90% di tutte le unità abitative della Striscia, lasciandosi dietro 160mila unità distrutte e 276mila gravemente o parzialmente danneggiate.
Man mano che la polvere si deposita e le immagini dell’entità della devastazione circolano sui media tradizionali, è diventato chiaro che la violenza genocida che Israele ha scatenato a Gaza non è stata usata solo per uccidere, sfollare e distruggere, ma anche per indebolire il diritto della popolazione palestinese a rimanere. Ed è proprio la possibilità di garantire questo diritto che il duo Trump-Netanyahu è ora deciso a impedire.
La permanenza come diritto
Il diritto di rimanere non è formalmente riconosciuto nel canone dei diritti umani ed è solitamente associato ai rifugiati fuggiti dal loro Paese e a cui viene permesso di rimanere in un Paese ospitante mentre cercano asilo. È stato invocato anche nel contesto dei cosiddetti progetti di rinnovamento urbano, in cui i residenti delle città, in gran parte emarginati e con alloggi precari, rivendicano il diritto di rimanere nelle loro case e nella loro comunità di fronte alle pressioni di attori potenti che spingono per riqualificazione e gentrificazione.
Il diritto di rimanere è particolarmente pressante nelle realtà coloniali in cui i colonizzatori spostano attivamente la popolazione indigena e cercano di sostituirla con i coloni. Dalle Prime Nazioni in Nord America agli aborigeni e agli abitanti delle isole dello Stretto di Torres in Australia, i coloni hanno usato la violenza genocida per negare questo diritto agli indigeni.
Il diritto di rimanere, tuttavia, non è semplicemente il diritto di «restare lì». Per godere di tale diritto, le persone devono essere in grado di rimanere all’interno della loro comunità e avere accesso alle «infrastrutture di esistenza» sia materiali che sociali, tra cui acqua e cibo, ospedali, scuole, luoghi di culto e mezzi di sostentamento. Senza queste infrastrutture, il diritto di rimanere diventa impossibile.
Al di là della semplice presenza fisica, il diritto di rimanere comprende anche il diritto di salvaguardare la storia antica e contemporanea e le reti di relazioni che tengono unite le persone e le comunità nel luogo e nel tempo. Un aspetto cruciale di questo diritto: il progetto coloniale non mira solo alla rimozione fisica e alla sostituzione degli indigeni, ma cerca anche di cancellarne culture, storie e identità, nonché qualsiasi legame con la terra. Infine, non può essere sufficiente avere il permesso di rimanere come soggetto occupato all’interno di un territorio assediato. Il diritto di rimanere include la capacità di un popolo di determinare il proprio destino.
Una storia di sfollamento permanente
Durante la guerra del 1948, le città palestinesi sono state spopolate e circa 500 villaggi palestinesi sono stati distrutti. La maggior parte dei loro abitanti sono diventati profughi nei Paesi vicini. In totale, circa 750mila palestinesi su una popolazione di 900mila furono sfollati dalle loro case e dalle loro terre ancestrali e non poterono più tornare. Da allora, lo sfollamento o la minaccia di sfollamento fanno parte dell’esperienza quotidiana dei palestinesi. In tutta la Cisgiordania occupata e persino all’interno di Israele, in luoghi come Umm al Hiran, le comunità palestinesi continuano a essere sradicate con la forza, allontanate dalle loro terre e impossibilitate a tornare.
La negazione del diritto di rimanere a Gaza da parte di Israele, sostenuta dagli Stati uniti, è di gran lunga peggiore, non solo perché molte comunità sono composte da rifugiati e questo è il loro secondo, terzo o quarto sfollamento, ma anche perché lo sfollamento è diventato uno strumento di genocidio. Già il 13 ottobre 2023, Israele ha emesso un ordine di evacuazione collettiva per 1,1 milioni di palestinesi che vivevano a nord di Wadi Gaza e, nei mesi successivi, ordini simili sono stati emessi più volte, arrivando a sfollare il 90% della popolazione della Striscia.
Certo, il diritto umanitario internazionale obbliga le parti in guerra a proteggere le popolazioni civili, il che include la possibilità di spostarsi dalle zone di guerra verso aree sicure. Tuttavia, queste disposizioni partono dal presupposto che le popolazioni hanno il diritto di rimanere nelle loro case e, pertanto, stabiliscono che gli sfollati devono essere autorizzati a tornare quando i combattimenti finiscono, rendendo illegale qualsiasi forma di trasferimento permanente.
Il trasferimento di popolazione deve essere temporaneo e può essere utilizzato solo per la protezione e il soccorso umanitario e non, come Israele ha fatto e i recenti commenti di Trump rafforzano, un «camuffamento umanitario» per coprire la distruzione e l’annullamento degli spazi palestinesi.
Il diritto di rimanere e l’autodeterminazione
Ora che è stato dichiarato il cessate il fuoco, i palestinesi sfollati possono tornare nei luoghi in cui vivevano. Tuttavia, questo ritorno non soddisfa in alcun modo il loro diritto di rimanere. Non è una coincidenza: la possibilità di rimanere è proprio ciò che Israele ha tentato di sradicare con 15 mesi di guerra.
L’abbattimento di ospedali, scuole, università, moschee, negozi e mercati ambulanti, cimiteri e biblioteche, insieme alla distruzione di strade, pozzi, reti elettriche, serre e pescherecci, non è stato effettuato solo per compiere uccisioni di massa e per ripulire temporaneamente le aree dai loro abitanti, ma anche per creare una nuova realtà sul terreno, in particolare nel nord di Gaza. Non solo le case palestinesi sono state distrutte, ma l’esistenza stessa della popolazione sarà compromessa per gli anni a venire.
Non si tratta di una novità. Abbiamo visto nel corso della storia come i coloni agiscono per spostare ed eliminare in modo permanente le popolazioni indigene dai loro territori. Imparando da queste storie, sappiamo che gli investimenti finanziari per la ricostruzione di case e infrastrutture non garantiranno, di per sé, il diritto della popolazione a rimanere. Rimanere richiede l’autodeterminazione. Per far valere il loro diritto, i palestinesi devono finalmente ottenere la libertà come popolo autodeterminato.
Israele ha negato ai palestinesi il diritto di rimanere per più di 75 anni. È giunto il momento di mettere le cose in chiaro. Qualsiasi discussione sul futuro di Gaza deve essere guidata dalle rivendicazioni e dalle aspirazioni del popolo palestinese. Le promesse di ricostruzione e prosperità economica da parte di Paesi stranieri sono irrilevanti se non sono esplicitamente legate all’autodeterminazione palestinese. Il diritto di rimanere può essere garantito solo attraverso la decolonizzazione e la liberazione della Palestina.
Pubblicato in originale su Al Jazeera
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