«Il candidato del centrodestra? Non spetta a un partito, sia una scelta condivisa»

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I 30 anni della svolta di Fiuggi, la molla modernizzatrice di An e la lezione di Pinuccio Tatarella, il “ministro dell’armonia” che da tempo immaginava un’altra destra e un conservatorismo europeo e liberale, insistendo su dialogo, apertura e capacità di parlare a un nuovo e ampio blocco sociale. Presidente del Senato e tra i fondatori di An e di FdI, Ignazio La Russa oggi sarà a Bari. «Ringrazio di cuore Fabrizio Tatarella – dice – che dirige benissimo la Fondazione intitolata a Pinuccio e che sono certo avrà, per effetto di questo ruolo, un futuro politico nel solco di quella necessaria “armonia” che fu il cavallo di battaglia di suo zio». La memoria, le spine del presente gli scenari futuri. A cominciare proprio dalla Puglia: «Regionali? L’unico metodo è la fortissima condivisione. È un errore dire a quale partito spetta l’indicazione del candidato, è necessario viceversa che sia una responsabilità comune».

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Presidente La Russa, il suo legame con la destra pugliese è solido e datato. L’eredità di Pinuccio Tatarella è ancora viva?

«Il convegno organizzato a Bari è importante perché parla di due cose inscindibili: il messaggio politico di Tatarella e la nascita di An. Senza di lui non ci sarebbe stata la svolta di Fiuggi, non si sarebbe mossa la storia che teneva bloccato il Msi. La storia della destra italiana è come una serie di anelli collegati, agganciati tra loro, ma ben diversi e pur parte di una stessa catena».

Qual è il primo anello?

«Tutte le svolte della destra cominciano nel 1946, quando nasce il Msi: era il partito di chi si considerava sconfitto dalla guerra, l’unico che lo diceva apertamente. Non voleva rinnegare ma soprattutto non voleva restaurare. Un’avventura cominciata tra le difficoltà. Il secondo anello è del 1972, quando la destra nazionale di Almirante unisce anche monarchici, liberali, cattolici, anche qualche partigiano bianco e antifascisti. Ma non funziona, perché la partitocrazia è ancora molto forte. Il terzo anello è determinato proprio da Tatarella e da Fini: il “partito della Nazione” che non rinuncia alla sua storia ma che è inserito democraticamente nell’agone politico attuale. Le tesi di Fiuggi testimoniano una svolta profonda, tutt’altro che superficiale. Come del resto raccontano anche i comportamenti di chi era lì al congresso».

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Una provocazione: la modernità delle tesi di Fiuggi, per esempio con quel passaggio sull’antifascismo (“momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici”) è persino oltre ciò che è oggi la destra italiana, sotto alcuni aspetti?

«No, perché non c’è niente di quelle tesi che non sia stato recepito e proseguito da Fratelli d’Italia. Anzi, aggiungo: all’epoca Tatarella era ancora costretto a scontare un certo pregiudizio europeo, viceversa Meloni ha sfondato anche a livello internazionale. Ed è questo l’ultimo anello della catena. Quanto poi a quel passaggio sull’antifascismo, oggi siamo in perfetta continuità. Ma voglio ricordare anche il paragrafo successivo delle tesi, nel quale si legge che non basta essere antifascisti per essere democratici. In ogni caso, c’è il massimo rispetto anche verso quei partigiani rossi che in buona fede lottavano per un ideale rischiando la vita anche se volevano una dittatura comunista».

Tatarella teorizzava anche “oltre il polo”, la capacità di contaminare e dialogare con nuovi mondi. È questa, ora, la vera sfida di modernizzazione della destra?

«Il centro, diceva, deve schierarsi e non può essere autonomo o diventa irrilevante: è come una zattera in mezzo al fiume, deve accostarsi da una parte o dall’altra. “Oltre il polo” è questo, e FdI in buona parte lo fa e lo dimostra il risultato elettorale».

La prospettiva potrebbe essere quella di un partito unico del centrodestra?

«Un’esperienza in tal senso già c’è stata, col Pdl, è non è stata positiva. Quando si unisce con un’operazione non profondamente sentita, sotto la cenere covano differenze ancora più forti di prima, capaci di produrre conflitti gravi, più di quanto accada nel rapporto tra singoli partiti alleati. In ogni caso, il partito unico resta un’opzione ma non prevalente».

Tatarella, ma non solo: la Puglia nei decenni ha espresso veri e propri cavalli di razza della destra e dei moderati. Eppure da 20 anni non riesce a espugnare la Regione e anche in molti Comuni, Bari su tutti, riscontra grandi difficoltà. Dov’è il cortocircuito?

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«Il voto alle Politiche ci premia anche in Puglia, perché si tratta evidentemente di elezioni sganciate dal clientelismo, da appartenenze pelose o dalla necessità di seguire il singolo esponente per motivi magari anche credibili. Cinque anni fa con Raffaele Fitto avremmo potuto vincere, ma forse non ci fu l’intesa profonda tra partiti della coalizione».

Poca compattezza e non tutti remarono nella stessa direzione?

«Non era evidentemente maturata la convinzione di puntare tutti insieme su un solo candidato, ogni forza politica era concentrata sui propri ragionamenti. E poi il voto locale ha spesso altre motivazioni, al Sud la gente di destra vota meno e alle amministrative contano molto i rapporti anche clientelari, e noi su questo siamo decisamente meno bravi per fortuna».

Adesso per il centrodestra è già tempo di scegliere il nuovo candidato alle Regionali: con quali presupposti e con quale metodo? E l’indicazione spetta prioritariamente a Fratelli d’Italia?

«Posso solo dire che l’unico metodo è la fortissima condivisione: dev’essere una scelta comune. E la mia idea è sempre la stessa: è un errore dire a quale partito spetta l’indicazione del candidato, è necessario viceversa che sia una responsabilità comune. Altrimenti si perde».

A proposito del caso Almasri: andrebbero prima di tutto evitati i conflitti tra poteri, riportando tutti i toni nei ranghi. Qual è il suo appello?

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«Sono convinto che non si debba cadere nella trappola del muro contro muro solo sulla scorta di qualche isolata posizione tra i magistrati inconciliabile con noi, ma guai a generalizzare con l’effetto di compattare l’intera magistratura contro la politica. Dobbiamo impegnarci a evitare questa trappola, ed è la mia tesi da sempre, nel ricordo di magistrati che ho conosciuto e apprezzato».

Normalizzare i rapporti, insomma. Ma come?

«Nessun muro contro muro, e qualunque riforma va portata avanti, al di là di ogni difficoltà, cercando il confronto sereno. Poi decide sempre la politica, è chiaro. Come è chiaro che i matrimoni si fanno in due».





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