Se l’appello alla democrazia digitale finisce nelle mani di Big Tech

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Se c’è un elemento positivo nel pubblico impegno di Elon Musk a fianco di Donald Trump nelle recenti elezioni politiche statunitense, è aver posto alla massima attenzione dell’opinione pubblica il ruolo non neutro dei social network. Da allora, le notizie relative alle piattaforme campeggiano sulle prime pagine e sulle home page di tutto il mondo. Dalla decisione di Zuckerberg di abolire il fact-checking e tagliare i programmi di Diversity, Equity & Inclusion, agli attacchi lanciati dallo stesso Musk su X (ex-Twitter) a diversi rappresentanti dei governi europei e poi culminati nell’intervista in diretta alla leader dell’estrema destra di Afd, Alice Weidel, fino alla legge sulla verifica dell’età che ha portato alla sospensione dei siti pornografici in 19 degli Stati degli Usae alla situazione di stallo di TikTok, poi risolta con l’insediamento di Trump. Sono questioni che chiamano in causa il tema della governance pubblica delle piattaforme digitali ed è un bene che siano finalmente poste. È il tema di Piattaforme e partecipazione politica (Mondadori Università, pp. 232, euro 22) di Marco Deseriis, professore associato alla Scuola Normale Superiore, che analizza la complessa relazione tra digitalizzazione delle relazioni sociali e processi democratici.

SEBBENE LE ASPETTATIVE utopiche che hanno caratterizzato la prima fase di diffusione della rete internet appaiano oggi sostanzialmente tradite dal dominio delle Big Tech, non sono mai mancati i tentativi di democratizzazione dei processi politici. Deseriis analizza i modelli di piattaforma, le questioni tecniche, normative e sociali a partire dai più noti esperimenti dei partiti che si sono costituiti intorno a strumenti di partecipazione digitale. Al netto di riscontri elettorali e valutazioni politiche, il risultato di esperienze come quella del M5S in Italia, di Podemos in Spagna e del Partito pirata in Germania e Nord Europa, è stata la difficoltà di far convivere le potenzialità delle piattaforme utilizzate con i vincoli della rappresentanza parlamentare. Problemi analoghi a quelli di cui hanno sofferto gli esperimenti di partecipazione municipale come quelli attivati a Reykjavik, Madrid e Barcellona, che hanno evidenziato le difficoltà delle architetture istituzionali ad interfacciarsi con le logiche delle democrazia digitale.

CIÒ RENDE LA MISURA delle ragioni per cui l’intervento pubblico sulla governance delle piattaforme commerciali risulti spesso inefficace. Deseriis riconosce gli elementi di una microfisica del potere attraverso l’analisi delle funzionalità tecniche delle piattaforme. Tramite meccanismi di gamificazione dell’interazione sociale, la personalizzazione algoritmica dei contenuti, gli effetti di rete che stimolano la moltiplicazione degli utenti e la loro permanenza online, le grandi corporation di Internet massimizzano l’estrazione di valore dagli utenti. Questi stessi meccanismi sono però anche responsabili della proliferazione di fake news e discorsi d’odio, della polarizzazione e della diffusione di nuovi disturbi psicologici. La politica sarebbe chiamata ad intervenire in modo diretto, invece della semplice difesa di una concezione novecentesca della privacy.

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Oggi, le Big Tech che hanno ottenuto il proprio successo nella costruzione di una sfera pubblica digitale abbandonano qualsiasi vocazione sociale e fanno valere il peso dei propri bilanci mastodontici. Evocano l’etica libertaria che aveva caratterizzato le origini della rivoluzione telematica per affermare una sfacciata libertà di azione. Di recente, la senatrice Elizabeth Warren ha scritto a Trump per sollevare la questione del conflitto di interessi nella nomina di Elon Musk a capo del Dipartimento dell’efficienza governativa. Musk ha risposto ricordando gli antenati Cherokee di Warren, chiamandola Pocahontas e postando immagini realizzate con l’Ai in cui è trasformata in una nativa americana.

SE I DISCORSI RAZZISTI e di incitamento all’odio partono dai padroni delle piattaforme, forse ha senso trasformare il ban a X della Ue, evocato da Jordan Bardella del Rassemblement National, e bollato come una fake news da diverse testate, in un’opportunità. È quello che sta facendo Paolo Cirio, artista e attivista digitale, che ha lanciato da poco la «piattaforma» ban-x-in.eu con una petizione in cui si chiede la chiusura di X.



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