Pasturismo: come l’industria globale del viaggio impatta sui territori e le pratiche rurali

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Da più di trent’anni la famiglia di Bylbyl porta ogni estate il bestiame sui pascoli d’alta quota, nella valle di Dobërdoll, sotto le creste montane che dividono l’Albania da Montenegro e Kosovo. Questi territori, con un passato recente travagliato, diventano oggi il suggestivo scenario del percorso escursionistico Peaks of the Balkans .

L’arrivo di turisti da tutta Europa spinge gli abitanti del luogo ad investire su nuove strutture di accoglienza, applicando così altri modelli economici e sperimentando nuove forme di relazione con il territorio. Qualche anno fa Bylbyl decide di intercettare questo nuovo flusso ancora debole ma in costante crescita, per lui può significare un’alternativa all’emigrazione. Molti abitanti della valle provano a fare altrettanto: di fianco alle stalle e ai recinti per le pecore iniziano a sorgere piccoli rifugi per i turisti, spinti dal mantra dell’autenticità.

Nel brulicante panorama dell’offerta turistica albanese, Erwin Lanj, guida ambientale, propone escursioni sul percorso Peaks of the Balkans, in alcune delle tappe più suggestive, portando i viaggiatori di tutta Europa a contatto diretto con famiglie di pastori, come quella di BylByl. Erwin sa bene che la presenza di turismo rappresenta una fonte di reddito sempre più importante in una regione particolarmente povera, ma è altrettanto consapevole dei rischi legati al consumo turistico, alla mercificazione della cultura albanese, alle forme di sfruttamento e profitto in un territorio tanto ricco quanto delicato. Erwin, in quanto albanese che ha deciso di restare, si chiede come evolverà nei prossimi anni questo tipo di ospitalità.

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La loro storia ci spinge ad allargare lo sguardo ben oltre l’Albania, a riflettere sul destino di tutte quelle aree marginali diventate meta turistica in tempi recenti. La sfida aperta nel Nord Albania così come per tutte le montagne mediterranee, diventa allora questa: è possibile un turismo realmente sostenibile?

Valli, fiumi, pecore e pratiche tradizionali: Pasturismo è un progetto audiovisivo del gruppo Boschilla, frutto di tre attraversamenti condotti nei Balcani dall’agosto 2017 al maggio 2019. Frontiere diventate per gli autori linee immaginarie da forzare e ricongiungere in un continuo andare e venire tra territori divisi per secoli da fili spinati, religioni e ideologie, che si riscoprono oggi meta turistica internazionale.

Percepiti come luoghi “selvaggi” e dal fascino arcaico, idealizzati dal turista contemporaneo che cerca altrove l’illusione di un’autenticità perduta, una tendenza globale che rende sempre più protagoniste le aree rurali nel nuovo mercato turistico.

E così, dopo il documentario Entroterra – un viaggio a piedi tra i paesi in spopolamento della dorsale appenninica – proseguono la loro indagine sulle aree interne e le montagne minori utilizzando la lente dello sviluppo turistico. Dopotutto il collettivo porta avanti gli obiettivi di studio con i territori attraverso questo progetto di ricerca e produzione multimediale, nato dopo numerosi attraversamenti a piedi.

Nel 2014 produce la trasmissione radiofonica Boschilla – il suono del tuo passo, attivando numerose collaborazioni con registi, scrittori ed editoria specialistica, con l’obiettivo di raccontare il territorio in un’ottica interdisciplinare. Nel 2016 nasce il progetto Ragnatele, un viaggio-ricerca sui paesi abbandonati e spopolati dell’Appennino, grazie al quale Boschilla è tra i vincitori del bando “Fuorirotta”, del regista Andrea Segre. Dal progetto nasce nel 2018 il docu-film Entroterra. Memorie e desideri delle montagne minori in anteprima mondiale alla 66ª edizione del Trento Film Festival e premiato come miglior documentario e miglior sceneggiatura alla 19ª edizione del Lucania Film Festival. Nell’ottobre 2018, a partire dallo stesso progetto che ha ispirato il film, Boschilla pubblica il libro Ragnatele. Un viaggio fra i paesi abbandonati dell’Appennino presentato in anteprima al Festival d’Internazionale a Ferrara nell’ottobre 2018. Dal 2019 organizza escursioni culturali e trekking naturalistici e inizia a girare il suo secondo film, Pasturismo. Sempre dal 2019 inizia la collaborazione con il festival Lagolandia, che promuove l’area appenninica bolognese, all’interno del quale nel 2020 nasce la Scuola di Ecologia Politica in Montagna, ideata da Boschilla e Articolture.


«Il nostro lavoro – ci spiegano – cerca sempre di tenere un focus sul presente, sul futuro e sulle nuove modalità dell’abitare che contribuiscono alla risignificazione delle aree interne e montane. Questo ci ha spinto a interrogare i processi che le attraversano. Di conseguenza, era inevitabile affrontare la questione del turismo. Adottando una prospettiva critica, prima abbiamo analizzato la storia dello spopolamento e quella dell’Appennino, rendendoci conto che, se si vuole considerare le aree marginali italiane, non si può non parlarne, perché in effetti il turismo è diventato un vero e proprio mantra da molti punti di vista, non necessariamente in chiave negativa. Abbiamo osservato che ogni progetto di vita – come quello di una giovane coppia che decide di trasferirsi in Appennino – è inevitabilmente legato a dinamiche e processi turistici, che rappresentano anche il modo in cui le forme di lavoro e di economia si reinventano. Allo stesso modo, sia le piccole che le grandi amministrazioni, investono sempre più in un’ottica consumistica o estrattivistica sul turismo e sulla montagna. Se si vuole pensare a prospettive di investimento futuro per questi territori, il discorso inevitabilmente ruota intorno al turismo. Per questo motivo l’idea è quella di analizzare turismo e montagne con uno sguardo complesso, che costituisce il nostro principale approccio critico».

E in effetti il turismo è un moderno rituale di massa, un fenomeno dai contorni globali che organizza luoghi, nature e culture in una fiorente industria economica, un settore che sempre più rivolge l’attenzione verso le aree rurali e i territori marginali.

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«Con il film abbiamo cercato di esprimere proprio questo concetto. Non si tratta di un documentario esclusivamente incentrato sulle montagne dell’Albania, ma di un percorso in cui quel territorio diventa una sorta di montagna paradigmatica del Sud Europa, del Mediterraneo. Un discorso che vale non solo per la montagna, ma per tutti quei territori che si reinventano nella contemporaneità anche attraverso il turismo e riescono a rappresentare la complessità di questi processi, che deriva da dinamiche non lineari: le popolazioni locali adottano un certo approccio, i turisti provenienti dalle città occidentali ne hanno un altro, gli operatori turistici un ulteriore approccio, così come gli abitanti delle comunità e gli studiosi che analizzano questi processi. Con il film abbiamo cercato di riproporre tutte queste prospettive».

C’è il nucleo familiare che porta avanti la tradizione della pastorizia; il giovane che decide di investire nel turismo; una guida albanese che, dopo anni trascorsi in Germania, ritorna in Albania per intraprendere questo tipo di lavoro – pur mantenendo un approccio critico verso i processi turistici locali – e anche un professore universitario che da anni studia antropologia, migrazione e turismo in Albania.

«Nel 2017 eravamo un gruppo di amici cresciuti in montagna, con decine e decine di viaggi a piedi fatti in tutta Italia, e ci eravamo conosciuti proprio per questo. Quando abbiamo realizzato il primo film (Entroterra, ndr) abbiamo smesso di andare in montagna per semplice divertimento, per stare tra di noi, e così abbiamo deciso di goderci un viaggio da turisti, quindi senza telecamere, senza strumentazione, solo per il piacere di stare in un luogo e conoscerlo. Il primo anno facevamo escursioni, visitavamo cime e, poco dopo, ci siamo innamorati. Arrivati a una guest house, ospiti di una famiglia di pastori – che poi sarebbero diventati i protagonisti del film – abbiamo scoperto qualcosa di sorprendente. Noi eravamo lì con loro e abbiamo visto che si preparavano, quasi recitando una parte, perché sapevano dell’arrivo di un gruppo di turisti che voleva assistere alla loro attività tradizionale: hanno indossato abiti tipici, persino qualche pelliccia e hanno messo in scena il lavoro quotidiano con gli animali. Questa scena ha ispirato il racconto. In particolare c’era il figlio, un giovane di vent’anni, capace di intercettare le esigenze di un turista tedesco-austriaco che desiderava vedere un’attività autentica: lui mungeva la mucca con naturalezza, in maniera spontanea e intanto spiegava, ed era proprio quello che il turista cercava. Al contrario, il pastore più anziano era preso dai pensieri sui territori da cui provenivano i turisti, sognava l’Inghilterra, i palazzi, l’asfalto, i grandi hotel, i soldi. Questa contrapposizione, evidente in pochissimo tempo, ci ha convinto a cambiare prospettiva: siamo passati dall’essere semplici turisti a voler girare un film sull’Albania e sul turismo rurale».

Pasturismo si ferma a riflettere e ci interroga, a partire da una prospettiva montana, su quella che ormai è diventata una monocultura: il turismo come panacea che salva da tutti i mali, che rilancia paesi emotivamente ed economicamente depressi, come unica alternativa alla scomparsa. Se è ormai condivisa una critica alle forme più predatrici del turismo di massa, come avviene ad esempio proprio sulle coste albanesi, i giudizi tendono invece a sfumarsi quando si parla di turismo lento, per sua stessa autodefinizione sostenibile.

Attraverso le immagini si prova dunque ad esplorare le prospettive talvolta confliggenti di viaggiatori e locali che per uno stesso processo si augurano esiti diversi. Sono proprio i turisti gli involontari trasformatori di mondi che invece vorrebbero cristallizzati e immutabili.

«Noi stessi siamo presenti con il nostro occhio e la nostra camera – racconta il collettivo Boschilla – assumendo in un certo senso diversi ruoli. In Appennino, oltre alla ricerca, organizziamo anche attività di guida ambientale ed escursionistica, partecipando attivamente al turismo. Proveniamo da territori marginali dove le dinamiche di resistenza, nonché le forme economiche e i progetti di vita, sono spesso legati al turismo, a cui non guardiamo in modo unilaterale o in maniera completamente negativa, anzi: uno degli sforzi nel film era proprio riconoscere che, nonostante il lavoro iniziato nel 2017 – cioè ben prima dell’attenzione mediatica degli ultimi anni sull’overtourism – il fenomeno presenta sfumature ambivalenti. Una delle ambizioni, soprattutto alla luce delle critiche recenti, è evitare di dare per scontato il punto di vista della popolazione locale. Spesso infatti si mantiene uno sguardo esotizzante e paternalista, in cui si presume che il turista occidentale o l’ospite debba sempre “insegnare” quale tipo di turismo sia da seguire. Prendiamo ad esempio i protagonisti del film: vedono nel turismo una possibilità di riscatto economico, un volano per piccole famiglie e comunità che, dopo anni di isolamento e arretratezza economica, possono trovare in questa opportunità un mezzo per rinascere. E questo, nonostante gli effetti negativi che possono derivare da certe dinamiche».


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Il risultato è la costruzione di una dialettica corale tra abitanti, turisti e ricercatori, tutte figure di un mosaico che restituisce le esperienze degli autori, la cui identità si frammenta nelle immagini e nelle voci dei personaggi: «Durante il lavoro in Albania non ci siamo concentrati sui processi turistici nelle zone del Sud, dove il turismo di massa sta letteralmente distruggendo le coste. Abbiamo scelto invece di osservare quei modelli turistici che, a prima vista, sembrano sani – basati sul cammino, sul trekking, sull’esplorazione della natura – per analizzare dove si annidano le contraddizioni. Come sottolinea l’antropologo protagonista del film, non basta definire un turismo “sostenibile” affinché gli effetti sul territorio siano realmente positivi. I processi che abbiamo indagato stanno trasformando radicalmente il luogo: sebbene non si tratti di turismo di massa – non ci sono grandi alberghi né migliaia di visitatori – anche il turismo lento porta impatti significativi. L’arrivo di numerosi visitatori, che genera più denaro e favorisce la nascita di nuove strutture, può comunque far emergere piccoli conflitti tra i locali e provocare conseguenze ambientali, come l’accumulo di rifiuti o la costruzione di nuove abitazioni».

Possibilità di rinascita e futuro o banale oggetto di consumo? Quello turistico è un fenomeno di per sé contraddittorio e ambiguo su cui gli autori non esprimono giudizi netti, domandandosi però quale possa essere il destino del viaggio moderno, che da rottura della quotidianità si sta trasformando troppo spesso in un modello serializzato di consumo.


«In questo contesto non possiamo affermare in maniera netta che esiste un turismo “buono” o “cattivo” in senso assoluto. È necessario accettare e convivere con le contraddizioni, proprio come accade nelle esperienze di viaggio. Ogni territorio ha specificità uniche e, per valutare la qualità degli impatti turistici, non si può adottare un approccio generalista. Al contrario, occorre una forte attenzione locale – non per differenziare un luogo dall’altro in maniera netta, ma perché ogni comunità possiede un’identità sociale, culturale e territoriale ben precisa, seppur fragile. Potremmo dire che l’area interna del Beneventano, del Matese o della Lucania non è la stessa di quella dell’Emilia Romagna, della Toscana o delle Marche».

Il documentario lascia così emergere un sottotesto autobiografico che ne sostiene lo sviluppo e arricchisce di significato le attività di un collettivo che si occupa di aree interne, questa volta provando a indagare un fenomeno nuovo: come il turismo globale impatta sui territori ai margini, quali residui lascia, ma anche – e soprattutto – quali possibilità dischiude per le popolazioni locali e per un loro inedito protagonismo.

«L’impatto del turismo va analizzato nella sua molteplicità di relazioni. Ma un ulteriore punto che ci tenevamo ad evidenziare nel film è la difesa del diritto al viaggio. Ad un certo punto si apre un ragionamento su migrazioni e turismo come due fenomeni strettamente connessi. Per noi i processi di rientro, partenza, immaginazione e nuove forme di vita e lavoro sono intimamente legati al turismo: allontanarsi per poi lavorare in questo settore è una dinamica ricorrente. In tal senso, rivendichiamo il diritto al viaggio, perché migrazioni e turismo sono due facce della stessa medaglia, quella della mobilità. Se da un lato notiamo le difficoltà nel muoversi liberamente, dall’altro assistiamo alla quasi totale libertà delle rotte turistiche. Questa è una delle forti contraddizioni del mondo del turismo. Questo però non significa che dovremmo smettere di viaggiare o che non dobbiamo più fare i turisti. Tutti abbiamo bisogno dell’esperienza extra ordinaria del viaggio, che ci permette di conoscere non solo luoghi esterni, ma anche aspetti nascosti di noi stessi e del nostro territorio. Non critichiamo il turismo in maniera assoluta, ma rivendichiamo il diritto alla mobilità, superando quelle retoriche semplicistiche che, nelle ultime settimane (il caso Roccaraso, ndr) hanno evidenziato come si possa arrivare con facilità a criticare certe forme di mobilità o socialità, senza apprezzarne le infinite possibilità».

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