Senza Sanremo, diario di un “rehab” riuscito. Paolini, Latella, Dix, persino Veltroni e l’avanguardia, pur di uscirne

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Mi scuso preventivamente con chi, con tutto il suo portato di dolore e fatica, è alle prese con serissime battaglie contro difficili dipendenze, ma questa è stata per me, dopo 40 anni, la prima settimana di “rehab”, riuscito, dal Festival di Sanremo. Sera dopo sera, rigorosamente lontano dal televisore di casa e dall’app di RaiPlay, mi sono liberato dalla “scimmia”. Per 4 decenni non ci ero mai riuscito, prima da critico altezzoso e distante, poi da inviato prima appassionato poi stremato, infine – per altri 25 anni! – da riconosciuto esperto (ma alla fine professionalmente coatto) dell’evento televisivo dell’anno.

Stavolta no, per la prima volta (AD 2025: segnare sul calendario) non ho sentito le canzoni, non ho seguito le “polemiche”, non ho commentato i look, gli ascolti, la conduzione, gli ospiti, né ho partecipato ai commenti in qualche trasmissione o al dibattito popolare, nemmeno dal panettiere sotto casa. E a chi conoscendo i miei trascorsi di “addicted” mi chiedeva un parere, per la prima volta e non senza un certo orgoglio ho potuto rispondere: di Sanremo 2025 non so niente, non ho visto niente, non ho ascoltato niente.

Non è stato facile, no, resistere alle sirene (l’rvm papale – auguri Santità! -, Elodie/Geppi vs Meloni, le lacrime di Conti e Cristicchi per la mamma, l’imperdibile ritorno di Jovanotti, il coraggio della Balti, il tradimento di Damiano, le paillettes di Malgioglio sfottute da Frassica, i trionfi di Giorgia, il ritorno dei mai amati Duran, Benigni universale…) che insidiavano fin da ogni TG i miei buoni propositi. Per non parlare del resto della tv, che piattaforme a parte non parlava che di quello; dunque tv generalista spenta e di giorno ricorso massiccio grazie a Raiplaysound alle differite di Radiotre, che cosciente del suo compito alternativo ha offerto una splendida Ottava di Mahler diretta da Thielemann, del buon jazz italiano, uno strepitoso e anomalo concerto per violino e pianoforte in diretta da Santa Cecilia, poi di nuovo Mahler, la Nona, dalla Sinfonica Nazionale della Rai diretta da Treviño, un’altro live da Stoccarda con quella matta di Patricia Kopatchinsaja fra il Macabre di Ligeti e il concerto per violino op.77 di Sostakovic, per rispondere infine alla finalissima sanremese con “Il giocatore” di Prokofiev registrato quest’estate a Salisburgo. 

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Questi i medicamenti ma la sera bisognava star proprio fuori di casa: ed ecco qui il diario fedele della mia prima settimana di libera uscita dopo quattro decenni da ufficiale in servizio permanente effettivo al Festival della Canzone Italiana di Sanremo. 

La prima sera, quella in cui di solito mi incollavo a Raiuno fino a notte fonda per ascoltare la prima esecuzione delle canzoni in gara, ci voleva una terapia d’urto, senza mediazioni; così ho scelto l’avanguardia. Mi è venuto in soccorso il Teatro Fontana, la sala milanese al cuore del meraviglioso santuario cinquecentesco nascosto fra le case del quartiere Isola, che da un anno è guidata da Ivonne Capece, che con la sua compagnia indipendente Sblocco5 (fondata nel 2013 a Bologna con Micol Vighi) esplora da anni il rapporto tra scena e nuove tecnologie (il suo “La monaca di Monza” di Giovanni Testori del 2016 fu una piccola rivoluzione e il ritorno nei giorni scorsi della “Cleopatràs” della meravigliosa Arianna Scommegna un prezioso regalo). Titolo al debutto, proprio la prima sera del Festival, “L’ estasi della lotta”, progetto di e con Carlotta Viscovo, drammaturgia Angela Demattè, supervisione dei movimenti Alessandra Cristiani, dramaturg Alice Sinigaglia, light designer Luigi Biondi, musiche e progetto sonoro Marco Mantovani, supervisione ai costumi Margherita Baldoni, installazione scenografica/scultorea Ettore Greco, video artist Ivonne Capece. A tema “la scultrice Camille Claudel e l’attrice che da anni vuole rendere onore alla sua opera. Due artiste in lotta che provano a conciliare l’ambizione legata alla propria arte e l’ansia di verità e giustizia. Da una parte una talentuosa scultrice ingiustamente ricordata più per la sua vita privata (1864-1943, compagna di Rodin e sorella del cattolicissimo scrittore Paul – ndr) che per le sue opere; dall’altra un’attrice di oggi che inserisce nel suo percorso artistico l’impegno nella difesa dei diritti dei lavoratori dello spettacolo”. La prima mezz’ora è stata dura, fra frammenti video di slabbrata definizione (chissà perché, con tanta qualità a disposizione fin dai nostri smartphone) ed ermetiche gestualità (il meglio era la tensione della colonna sonora); poi un vero “coup de théâtre”. La protagonista Viscovo che racconta dritta alla platea la propria crisi identitaria e professionale, specie negli anni della pandemia, e che grazie al testo elusivo ma molto coinvolto di Dematté entra ed esce dalla storia tragica di Camille (finì i suoi giorni in manicomio ignorata e umiliata) usandola per raccontare la propria crisi di attrice e sindacalista, offrendo così una coraggiosa riflessione sulla condizione femminile in un teatro italiano afflitto da maschilismo e narcisismo. “Non state capendo niente? Starete pensando: è matta…Sono impantanata. Bisogna combattere questo accomodarsi sulla scena. Io spavento… lotto per far emergere il vero…quando tutti avranno anima d’artista…Amo il mio lavoro, ma va difeso politicamente..Perché non riesco a vincere? Sono sempre un passo indietro…Me la ruberanno questa idea, sempre che la capiscano…Siete mediocri! Mi hanno portata via e voi non avete fatto niente…Siete incastrati in una bugia collettiva…Sono una grande artista, me ne glorio”.

Ci sembrava di tornare a certe pulsioni velleitarie, forse arroganti ma ancora libere dai ricatti del potere, degli anni 70. E anche se il dibattito a seguire scivolava verso un vittimismo senza sbocchi, sono tornato a casa segnato da una serata sincera e coraggiosa, di quelle che nei grandi teatri sembra non possano accadere mai. 

 

E magari poi non è vero, perché le tante recite in prima nazionale che il Teatro Strehler ha dedicato al debutto della nuova produzione “Darwin, Nevada” di Marco Paolini (dal 22 gennaio all’ultima pomeridiana oggi alle 16; si replica il 18 a Rovereto, dal 20 al 23 Trento, dal 27 al 2 marzo Bolzano, dal 6 al 9 Cesena, l’11 e 12 Bologna, dal 13 al 16 Modena, 18 e 19 Udine, 22 e 23 Pontedera) partono da un lungo e prezioso interrogarsi. Per fuggire anche le più piccole tentazioni festivaliere (seconda serata: Nuove Proposte + metà dei Big), sono andato ad ascoltare, prima dello spettacolo, anche l’introduzione di Paolini. Dopo aver messo in scena nel 2013 la storia di Galileo Galilei nell’intrigantissimo spettacolo “ITIS Galileo” – fui abbagliato, sempre qui allo Strehler, dalla sua audacia – desiderava tornare a occuparsi di una figura chiave del pensiero moderno e l’ha individuata in Charles Darwin, padre col suo libro “L’origine delle specie” (1859) dell’evoluzionismo ma soprattutto genio “contraddittorio, controverso: l’elogio stesso dell’ imperfezione“, spiega Paolini. Che aggiunge: “ Ci sono voluti cinque anni di lavoro, perché il suo mondo anglosassone è molto diverso da quello che frequento. Con Telmo Pievani siamo andati a cercare sia Jim Moore – è tra i maggiori studiosi della vita e dell’opera di Darwin – sia Niles Eldredge, il paleontologo statunitense che, insieme a Stephen Jay Gould, ebbe la possibilità di visionare per primo i celebri taccuini, così pieni di intuizioni giovanili diverse dalle sue teorie future più mature. Darwin vive un conflitto con se stesso, un malessere che “lavora” dentro di lui per vent’anni. È come se, prima ancora di rendere pubbliche le proprie scoperte, avesse presentito il fastidio per il frastuono che il suo lavoro avrebbe scatenato e ne avesse anticipato tutte le possibili strumentalizzazioni. Temendo che una biografia di Charles Darwin avrebbe coinvolto e interessato soltanto persone già informate, siamo andati in cerca di un possibile modo di raccontare tutto questo adattandolo a un contesto contemporaneo. Siamo partiti da un pretesto: il furto dei taccuini di Charles Darwin, avvenuto venticinque anni fa all’Università di Cambridge e misteriosamente conclusosi con la loro restituzione, circa vent’anni dopo, senza alcun indizio rispetto a cosa fosse accaduto nel lungo tempo intercorso. Con Telmo e Francesco Niccolini abbiamo provato ad avanzare un’ipotesi e ne abbiamo fatto lo spunto narrativo del nostro viaggio”.

 

Eccolo qui: ogni anno, a partire dal 1991, nel mese di settembre, nel deserto del Nevada, si tiene il Burning Man Festival: decine di migliaia di persone, per lo più giovani, si riuniscono per dare vita a un esperimento di comunità della durata di otto giorni. Non è ammessa la circolazione del denaro, ma solo il baratto e il dono. Nel 2023, una pioggia torrenziale travolse i partecipanti a quell’edizione del Festival, che si ritrovarono impantanati in una distesa di acqua e fango. Nello spettacolo si immagina che due ragazze, Sue Ellen e Sunny, stiano fuggendo di notte, con il loro camper, da quella tempesta. Complici l’oscurità, l’adrenalina e il maltempo, travolgono un uomo. Che sia Fernando Morión Nevada, partito per fare il giro del mondo, dopo aver lasciato la fidanzata Lupe ad aspettare il suo ritorno? E da dove vengono i suoi misteriosi taccuini? Sarà compito di Ed, sceriffo part-time della città di Darwin – e fidanzato pro tempore di Lupe – gestire, in qualche modo, la situazione. 

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Claudio Longhi, direttore del Piccolo Teatro milanese e coproduttore dello spettacolo insieme a Teatro Stabile di Bolzano, Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Vanishing Point, Jolefilm in collaborazione con La Fabbrica del Mondo, gli ha messo accanto il regista scozzese Matthew Lenton, che per rivendicare l’attualità di Darwin racconta un recentissimo episodio accaduto lo scorso 12 gennaio. “Alcuni attivisti per il clima – “signore mie coetanee”, sottolinea Paolini – si sono introdotti nell’Abbazia di Westminster, a Londra, e con lo spray hanno scritto sulla tomba di Darwin la frase “1.5° is dead”. Nel 2024, infatti, la temperatura sulla Terra si è alzata di un grado e mezzo, raggiungendo in un tempo brevissimo quel limite che non bisognava superare, pena danni e cambiamenti climatici irreversibili. Gli attivisti hanno dichiarato che Charles Darwin, come scienziato, avrebbe approvato il loro gesto. Questo, per me, dice tutto sull’importanza del nostro lavoro e del perché Darwin ci parli ancora oggi attraverso un bel sogno, qualcosa di bello da vedere, con una storia da raccontare”.

In effetti, grazie anche alla bellissima scena “smontabile” di Emma Bailey, le luci di Kai Fischer, il sound design Mark Melville e i quattro ottimi interpreti Clara Bortolotti, Cecilia Fabris, Stefano Moretti e Stella Piccioni, cui Paolini si affianca da narratore e vittima, la vicenda dei taccuini di Darwin diventa una specie di giallo non privo di colpi di scena. Paolini rivendica di essere un “divulgatore scientifico” molto diverso da come lo intende la tv sulla scia di Piero Angela & Co. “Per me la divulgazione è già parte della scienza, è un distillato dal “greggio” della scienza, un pezzo della catena. E trasportata a teatro è un processo biochimico, come la fotosintesi: deve vivere, devo tornarmene a casa colpito, incuriosito, toccato. E se il furto dei taccuini di Darwin è diventato un western, la responsabilità è tutta mia”. Felice responsabilità, verrebbe da dire, perché una serata “scientifica” come questa è davvero intrigante, divertente, oltre che nutriente.

Terza serata, finalissima Nuove Proposte (sarà bella “Vertebre” di Settembre? Confesso che all’annuncio del GR ho confuso titolo della canzone e nome dell’artista…) e metà dei Big in replica. Scelgo due appuntamenti in sequenza al Teatro Parenti non propriamente teatrali: alle 18:30 i tradizionali “Giovedìx” con Gioele Dix che racconta di libri e letteratura, l’altra sera dedicato a “Lettera a un bambino mai nato” di Oriana Fallaci (a grande richiesta si replica l’1/3); alle 21 seconda e ultima replica milanese de “Le emozioni che abbiamo vissuto. Gli anni Sessanta. Quando tutto sembrava possibile”, di, con e regista Walter Veltroni (repliche il 19 Torino, 20 Piacenza, 21 e 22 Bologna, 5 marzo Saronno, 6 Genova, 7 Ivrea, 21 Bergamo, 22 Parma, 23 Firenze, 29 Roma). Tutti e due in Sala Grande, gremita per i due appuntamenti in tutti i suoi 500 posti.

Quelli di Dix fanno anche più effetto, visto che la proposta consisteva in un attore, un tavolo e una sedia davanti al sipario, unici oggetti di scena brocca d’acqua e bicchiere. Ma ad affascinare è qui il patto fra l’attore, un habitué del Parenti, e il suo pubblico. Un giovedì al mese un testo diverso, con molte pagine lette, qualche breve commento, qualche buona battuta, in un clima complice e devoto. Il testo stavolta è aspro, personale, coinvolgente: il racconto di una gravidanza difficile e poi di un aborto, in forma di colloquio fra madre e feto. E’ datato 1975, nel pieno del dibattito che porterà nel 1978 all’approvazione della legge 194. 

Dix ne parla col condivisibile imbarazzo di “un grande mistero cui io da maschio assisto” ma anche mettendo in gioco l’esperienza di sua madre, che perse naturalmente altri figli, prima e dopo di lui. Oggi ci siamo dimenticati la ruvidezza, la lealtà e insieme la poesia con cui Fallaci raccontò e trasfigurò le sue gravidanze fallite in questo testo bellissimo e struggente. Gioele lo maneggia con cura e sincerità, evidenziando anche da padre lo spirito “libero e mai allineato” della grande scrittrice. Le domande sulla vita, sull’essere (“Nascere è meglio di non nascere: nascerai…una prepotenza affermata”), sul destino, sul corpo della donna e su chi cerca di aiutarne ma anche condizionarne le scelte, riecheggiano potenti e nuovissime. Fino al colpo finale lasciato alla voce stessa della scrittrice (scomparsa nel 2006): “La vita non ha bisogno né di te né di me. Tu sei morto. Ora muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore”. Emozioni forti, pensieri densi, gratitudine per Gioele Dix che ci ha rimesso di fronte a questo capolavoro nel modo più onesto possibile.

Diverso l’impatto, un’ora dopo, con l’amarcord di Walter Veltroni sui Sixties, in fondo un suo vecchio cavallo di battaglia, oggi trasformato in una messa in scena genuina con qualche tratto di malinconica ironia. Un grande schermo a dominarla, un salottino vintage d’epoca da un lato, un pianoforte a coda dall’altro (la scena è di Angelo Lodi), con lui un giovanissimo pianista 23enne scovato in rete: Gabriele Rossi, cui tocca il compito di punteggiare il racconto con canzoni di cui in gran parte non conosceva l’esistenza. Il pubblico no, il pubblico reagisce con assensi e mormorii, quando Walter racconta, estrae dal baule giochi e pupazzetti d’antan, mostra filmati che sappiamo a memoria, riproponendoci una stagione ed un mondo dove appunto “tutto sembrava possibile”. Ci sono tutti: da Gianni Morandi a Martin Luther King, da Bob Kennedy al ’68, dai Beatles a Berlinguer. Inaspettato, e qui Walter si prende un bel rischio, arriva invece lui: le sue foto da bambino, le foto del mitico padre giornalista in scena persino in un film di Totò, dei genitori, del nonno diplomatico sloveno antifascista torturato in via Tasso, ed è il racconto dolceamaro e personale di assenze importanti ma confidate con passo lieve. 

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Questa sua seconda , terza, quarta, quinta vita dopo la politica (cineasta, romanziere, giallista, editorialista, intervistatore…) fa una certa impressione, nella sua bulimia. Ma tutto ha un senso e una sua nobiltà, anche per chi magari non condivida in toto certi suoi idillici “if” su come sarebbe potuto andare meglio il mondo se i “cattivi” non avessero stravolto certe bellissime storie e con loro la Storia con la s maiuscola. 

Ma la sala del Parenti stracolma (come lo saranno quelle che lo aspettano in giro per l’Italia con la produzione CTB Centro Teatrale Bresciano insieme a Elastica e Retropalco) è tutta con lui. E’ una serata comoda e in fondo dolcemente malinconica: noi ci siamo ancora, sembra dire il pubblico con il trionfale applauso finale che corona l’evocazione di Lucio Dalla, non abbiamo perso la speranza in un mondo migliore, siamo ancora pronti a far la nostra parte.

 

E in fondo, quel piccolo frammento in bianco e nero in cui la crème della canzone italiana canta con Vanoni e Paoli “Il cielo in una stanza”, non è forse un’introduzione alla mia mancata serata dei duetti dí venerdì a Sanremo, quella in cui la quota Anni Sessanta, anche quest’anno, era ampiamente rappresentata?

 

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Per saltarla (è stata la rinuncia più dura, lo confesso) ho scelto un altro spettacolo del Piccolo che adocchiavo da tempo: “Zorro”, l’ultima creazione del regista Antonio Latella (in scena dal 23 gennaio chiude oggi alle 16). Era l’alternativa più giusta, col suo sapore di musical militante e provocatorio. Lo strano plot: “Un povero, un poliziotto, un muto e un cavallo si ritrovano in una sorta di terra di nessuno. Aspettano qualcuno che forse non arriverà, mentre discutono di alcune questioni sociali fondamentali: la distribuzione del reddito, le disuguaglianze, la povertà. Le delusioni del mito del progresso diventano allora oggetto di un dialogo tra personaggi apparentemente inconciliabili, che lentamente scoprono di avere in comune più di quanto pensassero. E poi c’è quel “segno Z”, che appena pronunciato li spinge a scambiarsi i ruoli: come in una quadriglia, in cui ciascuno, a turno, prende il posto dell’altro”. Straniante gioco narrativo, continuamente interrotto da una play list di canzoni e balletti che, con quei costumi sbrilluccicanti alla Elvis 1970 a Las Vegas, rende godibile e coinvolgente tutta la prima parte dello…show (che si apre su uno dei miti rock della nostra adolescenza: “Ragazzo di strada” dei Corvi). Sorvolando sull’esibizione genitale di uno dei quattro, durata sinceramente oltre il dovuto, è però nella seconda parte, predicatoria e alla fine inspiegabilmente ferma e verbosa (colpa del coautore Federico Bellini,  che nel programma di sala ci ammannisce un saggio piuttosto oscuro dal titolo “Povertà e convenzione”?) che Latella perde colpi, sostituendo alla leggerezza e al dubbio una lunga analisi sociologica sulla povertà estesa su quattro lunghi monologhi degni più di un convegno che di uno spettacolo. Tutto giusto, provocante, politicamente prezioso: ma in platea la delusione era palpabile. Peccato, innanzitutto per i quattro bravi interpreti Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni e Isacco Venturini; per le scene intriganti (il cactus semovente e parlante!) di Annelisa Zaccheria, i costumi e i simboli di Simona D’Amico, il suono spesso a loop di Franco Visioli, le luci di Simone De Angelis e i movimenti coreografici, molto spiritosi, di Alessio Maria Romano. Per onestà voglio però documentare le intenzioni di Antonio Latella: “Desideravo con tutto me stesso uno spettacolo violentemente pop, che facesse pensare a Las Vegas, qualcosa che fosse estremamente ricco e insieme offrisse una forma di intrattenimento: far ridere il pubblico facendogli, al tempo stesso, comprendere di aver riso su qualcosa di terribile – la povertà – è ben più agghiacciante del puntare il dito per dire ‘siamo tutti cattivi’. Ce lo insegnano i grandi maestri, Charlot e Stanlio e Ollio, per esempio”. Onore delle armi per un regista che continuiamo a stimare, e che aspettiamo a maggio, sempre qui al Piccolo, con un altro pastiche stavolta al femminile sulla figura di Wonder Woman.

E ieri sera? Ieri sono rimasto a casa, ho invitato a cena gli amici più refrattari al Festival, sicuro che nessuno di loro mi avrebbe chiesto di accendere la tv su Raiuno (e per sapere poi cosa, visto che il risultato finale è arrivato quando, tornati anche loro a casa, dormivamo tutti da un pezzo? Mi credereste che della vittoria di XXXX ho saputo solo stamane dal GR1 delle 08:00?). In sostanza ho raccontato loro di come era andata la mia prima settimana, in quarant’anni, senza Sanremo. Mi è mancato, mi hanno chiesto? Sinceramente no, anzi ho scoperto che c’è vita, e sale stracolme di miei connazionali di ogni età, anche al di là di quelle 29 canzoni. Se poi tornati a casa, di nascosto, dopo essersi nutriti di avanguardia, Paolini, Dix, Veltroni, Latella, i miei nuovi “fratelli” dei dodici passi si sono sciroppati le tre ore di Sanremo che ancora restavano dopo mezzanotte fra festival e dopofestival, non lo saprò mai. E poi che prove avete che anch’io, fino all’alba, non ci sia ricaduto? Avete solo la mia parola, potete solo fidarvi…



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