La strada che attraversa la campagna tra Ovada e Predosa, in provincia di Alessandria, costeggia per alcuni chilometri una recinzione che delimita la zona infettata dalla peste suina africana, un virus emorragico che colpisce cinghiali e maiali ma non si trasmette agli esseri umani. È una rete metallica alta un metro e mezzo, con le maglie abbastanza strette per evitare che gli animali possano allargarla per passare, ed è fissata a dei pali di legno piantati nel terreno. Divide in due la campagna, separando l’area dove il 6 gennaio del 2022 fu trovato il primo cinghiale morto di peste suina da quella che, almeno nelle intenzioni, non avrebbe dovuto essere infettata.
La rete dovrebbe servire a non far passare i cinghiali, che in questa zona sono tutti potenzialmente infetti. Gli animali però possono entrare e uscire tranquillamente perché i cancelli d’accesso ai campi coltivati sono quasi tutti aperti, anche se al lavoro in questo periodo non c’è nessuno, oppure perché sono chiusi male. Alcuni sono stati buttati giù dal vento e hanno i segni di un’assenza di manutenzione. «Chiuderli non serve più a nulla, perché il virus ormai è sia di là che di qua», dice indicando i due lati della recinzione Marco Borgia, che qui gestisce una Zona di addestramento cani che si estende per 230mila metri quadrati.
La recinzione anti-cinghiali a Predosa (Angelo Mastrandrea/Il Post)
I dati gli danno ragione. A dicembre l’Istituto sperimentale zooprofilattico di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta ha segnalato tre casi di peste suina africana a Ovada e un quarto a Molare, a cinque chilometri di distanza. A gennaio tre cinghiali infetti sono stati trovati nel novarese, molto più a nord, e in tutto il Piemonte i casi accertati dall’inizio dell’epidemia sono 688. Alla metà di gennaio il commissario straordinario nominato dal governo Meloni per gestire l’emergenza, Giovanni Filippini, ha detto che «la recinzione ormai si trova all’interno dell’area infetta» e insieme alla Regione sta valutando di rimuovere i 140 chilometri costruiti in Piemonte. Il presidente della Regione Alberto Cirio, di Forza Italia, ha detto che «la rete doveva essere interrata per funzionare ma così non è stato, si può valutare la rimozione poiché ripararla forse è inutile».
In un incontro con i rappresentanti della Regione, delle associazioni venatorie e di quelle agricole, Cirio ha annunciato un cambio di metodo: si passerà dai tentativi di contenimento agli abbattimenti dei cinghiali. Alla riunione c’era anche Alessio Abbinante, presidente regionale dell’Associazione nazionale uccellai e uccellatori (ANUU), un’organizzazione di cacciatori che si batte per la ripresa della caccia al cinghiale. «Abbiamo spiegato che la recinzione è inutile e che l’unica soluzione per ridurre i contagi è riprendere gli abbattimenti, e siamo riusciti a ottenere che nella zona cuscinetto tra le aree contaminate e quelle indenni si possano riprendere le battute di caccia ai cinghiali, con squadre di 16 cacciatori con i cani», dice. L’unica condizione è che tutti i cacciatori che partecipano alla battuta siano residenti nella stessa «zona di restrizione», per il timore che il virus entri in contatto con i vestiti o le scarpe e venga portato nei luoghi di provenienza. Nell’ovadese c’è una ventina di squadre di cacciatori, addestrati dall’ANUU.
Dopo la scoperta del cosiddetto “cinghiale zero” a Ovada (cioè il primo con la peste suina che è stato individuato), la Regione delimitò una “zona rossa” in cui era vietato cacciare e persino andare in cerca di funghi nei boschi. L’area vietata si estendeva per una quarantina di chilometri fino al confine con la Liguria, poiché nel genovese furono ritrovate altre carcasse di cinghiali uccisi dalla peste suina. Furono adottate misure molto dure per creare il cosiddetto «vuoto sanitario», cioè una distanza di sicurezza per evitare il contatto tra i cinghiali e i maiali allevati. Alcuni allevamenti furono costretti a macellare tutti i suini.
«Solo nel primo anno nella zona infetta furono uccisi 8mila maiali sani, che vivevano negli allevamenti a conduzione familiare in stato semibrado. Nonostante i risarcimenti della Regione per i capi abbattuti, molti di loro non hanno più ripreso l’attività», spiega Daniela Ferrando, un’imprenditrice agricola che presiede la Confederazione italiana agricoltori (CIA) di Alessandria e Asti, a cui sono iscritte 2.900 piccole imprese agricole della zona.
(Angelo Mastrandrea/Il Post)
Ferrando sostiene che il danno per molti allevatori è stato irreversibile. Per risarcirli la Regione ha stanziato 1 milione e 800mila euro, ma non è bastato a evitare che molte piccole aziende chiudessero definitivamente. Quelle sopravvissute devono rispettare misure molto rigide, come l’obbligo di cambiarsi le scarpe all’ingresso e di mettere delle reti di protezione anti-uccelli, e controlli continui dei maiali. Se viene trovato un caso di infezione, viene mandato al macello di nuovo l’intero allevamento.
Per impedire che il virus si estendesse in tutta la Regione fu poi costruita la recinzione anti-cinghiali. Oggi si estende per 270 chilometri e recinta un’area che comprende una parte della Liguria e uno spicchio di Piemonte. A guardarla sulle mappe forma una sorta di semicerchio, dal mare di Levante a quello di Ponente. Segue per lunghi tratti il corso delle autostrade, utilizzando le barriere che già esistevano. Taglia in due le campagne, affianca le strade poderali, aggira masserie, attraversa piccole frazioni dei comuni dell’entroterra e prosegue tra i monti. La sua costruzione è stata finanziata con 10 milioni di euro dei Programmi di sviluppo rurale (PSR) europei. «Quando i tecnici hanno fatto i sopralluoghi per costruirla pensavamo che avrebbero capito che non sarebbe servita a molto e che non avrebbe resistito a lungo, perché in queste zone il territorio non è omogeneo e in alcune zone rocciose di montagna non si riusciva neppure a piantare i pali», dice Abbinante. Racconta che in molti punti gli animali l’hanno sfondata per passare e in altri, dove il terreno è invece molto friabile, hanno fatto dei buchi nel terreno per passarci sotto.
(Angelo Mastrandrea/Il Post)
Alla fine, nonostante le misure adottate, il virus è arrivato negli allevamenti, ma molto più a nord dell’area infetta, probabilmente portato dalle persone che ci lavorano. A Frassineto Po, una sessantina di chilometri a nord di Ovada, a causa di un maiale risultato positivo a un test un’azienda agricola è stata costretta ad abbattere 2.400 suini. Il contagio ha allarmato molto le associazioni di agricoltori perché negli allevamenti piemontesi ci sono 1 milione e 300mila suini e la produzione di salumi genera un giro d’affari da un miliardo di euro all’anno. «Ci sono danni diretti enormi, che derivano dai fermi produttivi, dalla vendita sottocosto degli animali e soprattutto dalla chiusura definitiva delle attività, ma anche quelli indiretti, alle ditte di trasporti e ai lavoratori dei macelli», dice Angela Garofalo, responsabile del settore zootecnico e fauna selvatica della CIA.
Sono a rischio anche le esportazioni, poiché molti paesi non accettano i prosciutti provenienti dalle zone infette. La CIA stima una perdita di 20 milioni di euro al mese per il blocco delle importazioni da alcuni paesi come Cina, Corea del Sud, Messico e Taiwan. In un’audizione informale al Senato, il 6 febbraio, il commissario straordinario Filippini ha detto che sono riprese le esportazioni verso il Canada e sono stati avviati dei negoziati con il Giappone, che però mantiene ancora il blocco.
Filippini ha sostenuto che «la strategia degli abbattimenti sta funzionando perché il virus non sta avanzando», e che «l’ondata epidemica sta diminuendo la sua portata» grazie alla diminuzione del numero dei cinghiali. Nel 2024 in tutta Italia sono stati abbattuti 31mila cinghiali, è stata revocata la «zona rossa» a Roma, dove c’erano stati alcuni casi di peste suina, ma la malattia non è ancora regredita. In tutta Italia dal 2022 si sono formati 48 focolai di peste suina africana e il virus è ancora presente in molte regioni italiane. È stato trovato negli allevamenti intensivi della provincia di Pavia, in alcune carcasse di cinghiale nel Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, in Campania, e nei maiali al pascolo ad Africo, nel sud della Calabria.
Secondo Greenpeace, la strategia degli abbattimenti «in altri paesi europei si è rivelata fallimentare». L’associazione ambientalista sostiene che per impedire la diffusione dei contagi bisogna rivedere il modello degli allevamenti intensivi, «dove un singolo focolaio può costringere all’abbattimento di migliaia di capi, con costi ambientali e sanitari, e un notevole danno economico per gli allevatori». Per questo ha depositato alla Camera dei deputati, insieme alle associazioni Medici per l’ambiente, Lipu, Terra e WWF Italia, una proposta di legge per cambiare il sistema degli allevamenti intensivi.
A luglio del 2024 la Commissione Europea ha invitato un gruppo di esperti a visitare le zone infette in Lombardia e in Emilia-Romagna. Nella relazione finale, chiedono all’Italia di abbattere i cinghiali solo nelle zone non infette e di puntare di più sul monitoraggio e sul contenimento degli animali selvatici, evitando che si muovano e infettino nuove aree. Ammettono però che «la costruzione delle recinzioni è un problema, a causa delle condizioni geografiche molto difficili». Agli inizi di febbraio il ministero della Salute ha comunicato alla Commissione europea il nuovo Piano per la peste suina. Tra le misure previste per contenere l’espansione del virus, c’è anche il «posizionamento di barriere preventive».
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