Il fine dining è in crisi? Gipponi, l’oste creativo: «Da “Dina” tante anime, la mia cucina è per tutti»

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«Ho avuto tante offerte ma resto un ragazzo di provincia, a Brescia o Milano l’artigiano che è in me sarebbe spiazzato»

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Il «fine dining» è morto? È il tema del giorno sui media specializzati in cucina e anche su quelli generalisti. Ne parliamo con Alberto Gipponi, chef-patron di Dina a Gussago: non è l’unico «creativo» in Italia ma ha la vocazione di cantare fuori dal coro. Le guide e i gourmet lo adorano: pochi mesi il Gambero Rosso lo ha fatto entrare nell’èlite delle Tre Forchette, l’Espresso lo considerano Quattro Cappelli su un massimo di cinque, la Michelin lo ha nel mirino da tempo anche se per ora non premia chi sostiene l’insindacabilità della prima Stella. Il curiale Gipponi sorride, prosegue a fare e disfare: rifugge le mode (su questo non si discute) e, forse, ha trovato un perfetto equilibrio. Peraltro, da lui, ci aspettiamo che non lo trovi mai del tutto proprio perché in un momento di passaggio, talvolta noioso, per la cucina d’autore ci vuole qualcuno che spinga, provochi, non giochi facile.

Gipponi, partiamo da come viene definito il Dina sulla Guida del Gambero Rosso: è un ristorante di evasione (se non altro dalla normalità) e un po’ di eversione. Si ritrova nella valutazione?
«Preferisco dire che Dina ha tante anime: cambia in base alla percezione di chi si siede. È nato come un luogo complesso, a partire dal fatto che ogni sala è diversa dall’altra e mettiamo a tavola molte cose, tutte da scoprire. Diciamo che manca una ‘categorizzazione’ di un ristorante come Dina, ma va bene così. Poi diciamo la verità, anche il termine ‘fine dining’ spesso viene usato a sproposito».




















































Comunemente, viene inteso come l’alta ristorazione in senso lato, la cucina raffinata che coincide spesso con quella ‘stellata’ della guida Michelin. Dina non vanta la Stella: per noi la meriterebbe ma il paradosso oggi è che forse fa troppa innovazione per quello che la gente chiede.
«Anche qui: non mi considero un innovatore ma una persona curiosa che vuole capire. Per me, l’innovazione è tale quando viene copiata, dall’industria in primis, sennò resta l’idea di un singolo. Magari molto interessante: per esempio con il fisico Davide Cassi stiamo studiando molto le farine: i tempi di cottura, legati alle temperature, creano una struttura particolare nell’impasto. Quella che abbiamo chiamato ‘pasta rock’ potrebbe quindi essere ideale anche per gli intolleranti e sicuramente regala già una texture sempre diversa, a seconda di come si lavorano le farine. Ma resta un’idea, lo ripeto».

Torniamo al Dina: chi sono i suoi clienti?
«Quelli che mi consentono di avere i conti in ordine, senza diventare ricco: ci sono sempre un paio di tavoli con ospiti che mi conoscono, altri di neofiti e altri ancora di gastronauti seriali. Penso sia un mix di quasi tutti i ristoranti che non ‘giochino’ sul classico, però amo sottolineare che Dina non è un club ristretto ma un luogo aperto a tutti dove non impongo nulla».

Ma si diverte a spiazzare comunque: serve ravvicinati i Casoncelli con crema di Grana Padano e il Cannellone con tartufo bianco. I primi sembrano solo la sua visione di un ‘cult’ della tradizione e il secondo pare un esercizio di stile: è vuoto e accompagnato da un gelato al tartufo bianco. Come la mettiamo?
«Sono molto più vicini di quanto si pensi. C’è la ricerca della golosità e un gesto tecnico profondo anche nei casoncelli che, senza presunzione, ricordano quelli della Bassa ma sono differenti in tutto. Rappresentano l’approdo di un processo iniziato con il Casoncello né cotto né crudo che era provocazione della memoria. Quanto al cannellone, per me è un vuoto ripieno di tecnica, gusto, possibilità future e pensiero. Un simbolo attuale di Dina».

Cosa pensa quando legge i mille articoli sulla crisi del fine dining?
«Probabilmente è stato raccontato qualcosa di straordinario che non lo era: in tanti, forse, hanno seguito la moda ma non era la loro strada. Tanti locali erano più ‘narrativi’ che di sostanza e prima o poi sarebbero nati problemi. Poi, sia chiaro, ci vuole fortuna e scegliere il posto giusto al momento giusto».

Non se la prenda, pure lei viene considerato un grande narratore. Nei primi anni, lo era forse sin troppo finendo per confondere il cliente.
«Ho capito, strada facendo che bisogna offrire il racconto del piatto solo a chi lo chiede. E deve essere vero mentre capita spesso, nei ristoranti, di non trovare quanto viene promesso».

Forse, la sua categoria dovrebbe rendersi conto del momento particolare di riflessione e in qualche caso di vera crisi.
«Manca la capacità di autocritica, generalizzando. Per me ha ragione Bottura, il mio maestro, quando sostiene che l’ingrediente più importante per il cuoco del futuro è la cultura che genera conoscenza, coscienza e senso di responsabilità. Ci vorrebbe più cultura per affrontare questo momento difficile, insomma».

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Come vede il futuro per la ristorazione?
«I luoghi veri, al di là della categoria di appartenenza, si manterranno tali e non rischieranno mentre quelli ‘falsi’ spariranno inevitabilmente».

Ha scelto la tranquilla Gussago per il Dina: magari a Brescia o ancora meglio a Milano sarebbe stato più facile creare interesse e trovare la quadra.
«Ho avuto proposte anche dall’estero ma resto un ragazzo di provincia, al di là che qui posso lavorare con costi minori per l’affitto e il personale. Se il Dina si trovasse in città, l’artigiano che è in me sarebbe sicuramente disorientato».

In un’intervista ci disse “Mi piace non stare mai fermo, esplorare le frontiere del gusto. Ma mi sento meno estremo rispetto ai primi anni di attività: a quel tempo pensavo che ogni mio piatto sarebbe piaciuto al cliente”. Nel cambio di visione, ritiene di avere limitato il suo talento?
«Non so risponderle. Diciamo che oggi faccio da mangiare per tutti, cercando di non calare nulla dall’alto anche se molti piatti, apparentemente semplici, sono tecnicamente complessi. Mi piace aprire la porta di Dina, personalmente, ed essere ospitale al massimo, spiegando a chi vuole sapere cosa hanno davanti: mi sento un oste creativo, insomma».

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