A fine gennaio, appena insediato e mentre firmava ordini esecutivi sui dazi, Trump ha minacciato i Brics: se intendono andare avanti con la loro moneta internazionale alternativa al dollaro dovranno vedersela con dazi del 100% sulle loro esportazioni negli Usa.
Qualche giorno fa, nel primo dialogo telefonico con Putin sull’Ucraina, Trump è tornato a discutere del dollaro e del suo potere.
Nonostante gli analisti economici si affrettino a ribadire che il dollaro non ha e non potrà avere mai rivali, le mosse di Trump sembrano celare, con la tracotanza tipica del personaggio, una fragilità profonda. È noto, infatti, che il debito pubblico americano sta toccando vette senza precedenti (al 97,8%, ora; si stima che nei prossimi dieci anni arriverà al 118%).
È altrettanto noto che le politiche di Trump, segnate da una regressività fiscale che supera i sogni più ambiziosi di Wall Street, non potranno che aggravare il debito pubblico. Vero, con Musk e il suo Doge, ovvero con il violento taglio della spesa federale e di migliaia di posti di lavoro negli apparati dello Stato, il tycoon è convinto di recuperare margini di bilancio utili all’azzeramento o quasi delle tasse per imprese, ricchi e super ricchi. Ma molte spese sono incomprimibili (quelle militari, per esempio), mentre il piano fiscale sarà gravato da incognite varie (compressione dei consumi, fallimenti, ecc.).
Ma c’è una questione che, più di altre, potrebbe far vacillare il potere del dollaro: la ripresa dell’inflazione. Come giustamente sottolinea Alessandro Fugnoli nell’ultimo numero della rivista Aspenia, l’amministrazione Trump è colpita da un dilemma: «Mantenere il ruolo di valuta globale di riserva del dollaro, che offre all’America consistenti vantaggi geopolitici, e al tempo stesso svalutarlo per reindustrializzare gli Usa». Cosa sono, infatti, i dazi, se non un tentativo di riportare negli States quella produzione industriale migrata senza sosta a partire dagli anni Settanta? Dazi per le importazioni di prodotti e semilavorati, regressività fiscale: se le tasse per produrre in America sono basse e competitive, se importare è sempre più costoso, tanto vale produrre negli Stati uniti, magari in Texas come fa Musk. Peccato, però, che, in prima battuta, i dazi non possono che far impennare l’inflazione. Inflazione, leggi svalutazione della moneta che, come noto, favorisce i debitori: nel caso specifico, dollaro più debole che rende il debito pubblico americano, sovrabbondante nelle pance delle banche centrali di tutto il mondo, meno oneroso.
Il dilemma sembra insolubile, ed è così che le criptovalute, benedette da Trump, conquistano la ribalta. Problema aperto anche per le economie che più esportano negli Stati uniti e acquistano Treasuries, quei buoni del tesoro che, da quando gli Usa sono diventati la maggiore potenza mondiale dal punto di vista sia tecnologico-militare che monetario, vengono considerati assets sicurissimi. È bene sapere, infatti, che la Federal Reserve può pompare liquidità nei mercati, aumentando senza sosta la quantità di moneta, perché il Tesoro può emettere e piazzare senza sosta i suoi titoli di debito, ritenuti affidabili perché massimamente liquidi (liquido è ciò di cui ci possiamo liberare, nello scambio, rapidamente e senza ostacoli). Oltre una certa soglia, però, anche una superpotenza mondiale può non sostenere più il suo indebitamento.
Ma c’è una seconda questione, che spinge l’oro ai suoi massimi storici (si avvicina, ormai, ai tremila dollari l’oncia) e mobilita già da tempo i Brics nella ricerca di una moneta alternativa al dollaro: l’uso offensivo e dispiegato delle sanzioni finanziarie, tramite il controllo dello Swift e dunque dei pagamenti internazionali. Le sanzioni contro la Russia, in ultimo, hanno messo in allarme tutto il Sud Globale, rilanciando con forza la discussione su un bancor di keynesiana memoria.
Ultimo, ma non per importanza, gli effetti delle manovre monetarie della Fed. Agli inizi del secolo, nel mondo, il 70% delle riserve monetarie era in dollari. Oggi, sono al di sotto del 60% e la decrescita non si fermerà. Perché? Perché il dollaro non è, semplicemente, «denaro mondiale», ma è anche e soprattutto la valuta di un paese specifico, gli Stati uniti, con una banca centrale, la Fed, che in autonomia decide il tasso di interesse. Una svalutazione competitiva del dollaro, utile per ridurre gli oneri del debito e funzionale alla reindustrializzazione degli States, potrebbe far vacillare la stabilità di buona parte dell’economia asiatica, sovraccarica di riserve valutarie denominate in dollari. Il dilemma di Donald Trump, se ben compreso, ci rivela un gigante dai piedi d’argilla, col dollaro che somiglia sempre più a una «tigre di carta». Ciò non esclude la violenza di Trump, semmai la aggrava.
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