La prima vera crisi di Meloni. Cronache da un fortino assediato

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troppi guai per la premier

Delmastro è solo l’ultimo inciampo. Dal caso Almasri ai servizi segreti, da Santanchè alla guerra contro le toghe fino al più grosso dei suoi guai: Trump. La premier si sente in trappola

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E ora pure questa. Non bastavano le sortite dell’alleato d’oltreoceano a chiudere Giorgia Meloni in un silenzio intirizzito (incrinato, ieri, solo da una  nota in cui parla di “pace”). Arriva pure la condanna del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Neanche il tempo di focalizzarsi sull’estero e tornare con la mente alle parole del sottosegretario Fazzolari che al Foglio a ottobre disse: “Dovesse vincere Trump, non credo verrebbe meno il sostegno a Kyiv”. Un’uscita invecchiata male. Perché adesso Meloni, che aveva nel posizionamento internazionale un suo punto di vanto, non sa  che fare: se gioco troppo di sponda con l’Ue, l’amico di Mar-a-Lago molla pure me? Un gran grattacapo che si aggiunge a settimane infauste, dal caso Almasri al caos nei servizi, passando per l’affaire Paragon, il ministro Nordio che smentisce il sottosegretario Mantovano e la guerra con i magistrati. E poi l’inchiesta su Daniela Santanchè, le chat di Fratelli d’Italia e le talpe in Cdm. Ora la premier è per la prima volta in difficoltà. 

 

Per una come  Meloni, abituata a frequentare le aule parlamentari,  l’assenza da Montecitorio e da Palazzo Madama ha reso plastica la volontà di sfilarsi, di svicolare. Sparire. Un commento, una domanda, le avrebbe procurato imbarazzo. L’ultima uscita pubblica risale all’assemblea nazionale della Cisl, la scorsa settimana. Da allora solo appuntamenti istituzionali. Con in mezzo il viaggio a Parigi per il vertice informale convocato da Macron sull’Ucraina, in cui la si è vista comparire nelle foto ostentando pochi sorrisi. Una reazione quasi naturale se è vero che la coerenza rivendicata a livello internazionale nel sostegno a Kyiv adesso rappresenta per lei più che altro un fardello. In ambienti di alto livello, in quel mondo tra politica e finanza, a Roma e a Milano, vaticinano: “La politica estera nella quale brillava sta diventando la trappola che rischia di bruciarla”. Tant’è che Meloni, la quale mesi addietro si era recata in Ucraina a portare vicinanza al presidente Zelensky, ora si fa scavalcare pure dal premier socialista spagnolo Sánchez che va in Ucraina a portare il sostegno delle democrazie europee.

 

Eppure alla sensazione inedita di fragilità concorre e non poco il lungo elenco di guai interni che ha affastellato uno dopo l’altro il governo. L’ultimo dei quali s’è aggiunto ieri: la condanna a otto mesi inflitta al sottosegretario alla Giustizia  Delmastro per “rivelazione del segreto d’ufficio” nella vicenda legata al detenuto anarchico Alfredo Cospito. Ma soprattutto la sua interdizione, per un anno, dai pubblici uffici. Un sottosegretario interdetto.  A Palazzo Chigi  è scattata l’ora “del fortino”, ci si chiude in una difesa a riccio: Delmastro resterà al suo posto. Meloni non può permettersi cedimenti. Così qualcuno comincia a dire: “E’ l’inizio della fine”. Chissà.

 

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Gli echi del caso Almasri s’avvertono ancora, con la Corte penale internazionale intenzionata ad andare fino in fondo nel redarguire l’Italia per la liberazione del generale-torturatore libico. Una vicenda che ha evidenziato il caos nei nostri servizi, la cui delega è nelle mani del sottosegretario  Mantovano. Il quale mercoledì, incredibilmente, è stato smentito dal ministro della Giustizia  Nordio a proposito dell’utilizzo del software spia “Graphite”. Mantovano si era opposto a un’interrogazione di Italia viva appellandosi alla natura secretata degli atti. Ma Nordio, dando seguito a una richiesta di Renzi, quegli atti li ha spiattellati in Aula. Bum! 

 

E’ proprio in materia di servizi che il governo ha dato prova di scarsa tenuta: l’addio di Elisabetta Belloni al Dis, i controlli su Gaetano Caputi, capo di gabinetto di Meloni, le carte secretate finite sui giornali. Ma per la premier ci sono questioni ancor più spinose. La condizione periclitante della ministra del Turismo  Santanchè, interessata da ben due procedimenti giudiziari e verso cui un pezzo di maggioranza (e di FdI) non nutre granché stima. E poi il caso delle chat interne al partito meloniano pubblicate dal Fatto e che raccontano molto di una sfiducia della presidente del Consiglio nei confronti delle centinaia di peones definiti “infami”. A descrivere il quadro poco sereno anche le continue fughe di notizie, per esempio quella dell’ultimo Consiglio dei ministri, che ha fatto emergere un violento diverbio tra i ministri Lollobrigida e Piantedosi.

 

Solo un mese e mezzo fa, tornando dalla visita lampo a Mar-a-Lago per sbloccare la liberazione di Cecilia Sala, Meloni era stata festeggiata come la vera leader d’Europa. Poco più di quaranta giorni dopo la situazione è precipitata a tal punto che pure un Emmanuel Macron in fase discendente riesce a prendere un’iniziativa europea. Mentre lei è costretta a temporeggiare, chiudersi a Palazzo, aspettando che passi la buriana. Solo che ogni giorno  Meloni incassa una nuova batosta. E oltre a qualche like estemporaneo di  Musk, sembra sempre in balìa dell’alleato d’oltreoceano. Non può seguirlo, perché tutto ciò che vuole fare Trump va contro gli interessi dell’Italia. Ma non può mollarlo, perché lo teme. Forse non esattamente una prova di leadership.

 





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