Opinioni | Fragilità vere (e non) in Europa

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Il racconto che si fa dell’Europa, di questi tempi, assomiglia molto a quello che siamo abituati a sentire delle imprese italiane. Troppo piccole, fragili, divise. Eppure, siamo i quarti esportatori al mondo e la seconda manifattura dell’Unione. Certo, l’asse Trump-Putin ci mette in una condizione di fragilità mai vista prima. Ma, come le imprese italiane, vale la pena cominciare a considerare anche i punti di forza. Tenendo conto del fatto che il partito dei detrattori ad ogni costo è in posizione di forte vantaggio.
Cominciamo dalle risorse finanziarie: nel rapporto curato da Enrico Letta si legge che ogni anno dall’Europa verso gli Stati Uniti affluiscono circa 300 miliardi. Una montagna di risparmio, in gran parte investito nelle società tech. Dunque, gli investimenti europei (senza che nessuno lo riconosca) rappresentano un pilastro della crescita degli Stati Uniti e possono essere un pilastro ancora più importante per la crescita sostenibile dei Paesi europei se cambiassero, anche solo un poco, direzione.

Secondo numero: il mercato europeo conta circa 450 milioni di persone, viene considerato il mercato più grande al mondo di consumatori, investitori, imprese, Università. Sarà disposta l’America a rinunciare a questo mercato così grande? Difficile. C’è poi un altro elemento che riguarda i pagamenti digitali, il modo nel quale ciascuno di noi acquista o vende beni. Miliardi di operazioni. Secondo un calcolo presentato da Pietro Cipollone, membro del comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, il 64% dei pagamenti con carta realizzati in Europa avviene con circuiti extra Ue, ovvero sistemi che non fanno capo a società presenti nel vecchio continente. In gran parte americane o cinesi. E se questi pagamenti cominciassero a viaggiare sui circuiti di pagamento comunitari?
Probabilmente i grandi gruppi americani potrebbero pensare che vada bene litigare, ma anche la trattativa può essere un’opzione. 




















































Andiamo alle armi, alle spese per gli armamenti che in una fase come questa rappresentano la forma di sicurezza strategica necessaria. Guardiamo i numeri: per il 78 per cento, scrive Letta, l’acquisto da parte dell’Europa di questo materiale bellico si rivolge a Paesi extra europei, in primis gli Stati Uniti d’America. Pur avendo l’Europa un’industria che, se andasse verso l’aggregazione delle singole aziende nazionali, sarebbe in grado di competere. Produrre 27 carri armati diversi, è decisamente troppo.
C’è poi un altro elemento che nello scenario attuale viene sottovalutato, l’euro. Moneta comune che molte forze politiche negli anni scorsi hanno denigrato, al punto di evocare un ritorno alle monete nazionali, persino alla gloriosa (e fragile) lira. Attualmente l’euro rappresenta il 20% degli scambi mondiali. Naturalmente è ancora troppo piccolo, ma bisogna ricordare che fin dalla sua nascita, nel 1999, gli Usa hanno nutrito molta diffidenza verso questa valuta nata da un accordo tra Stati sovrani che poteva diventare alternativa al dollaro. E bisogna ricordare che quando era in fasce, molti dubitavano persino che qualcuno potesse fidarsi, accettarla nelle transazioni internazionali. Invece è accaduto. 

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Continuando a parlare di numeri, che qualche volta aiutano anche se non possono leggere tutta una realtà complessa come quella che stiamo vivendo, l’Europa rappresenta il 15% degli scambi mondiali. La battaglia dei dazi è appena all’inizio, ma una fetta così grande degli scambi è difficile da annullare. Prendiamo la questione delle big tech, uno dei fronti che il presidente Trump ha aperto con l’Unione europea: molti ricordano quello che accadde nel 2004, la prima sanzione da 497 milioni che la Commissione europea, nella quale Mario Monti sedeva come commissario Antitrust, decise nei confronti di Microsoft. Una cultura antitrust, quella di Bruxelles, che viene vista con molta insofferenza dagli Usa. Anche se quelle decisioni, in qualche modo, hanno contribuito a rafforzare l’ecosistema delle start up della Silicon Valley, limitando le posizioni di abuso dominante dei big troppo big. L’Europa potrebbe persino prendersi un po’ del merito di aver generato innovazione diffusa perché, se non avesse detto quei no, probabilmente la crescita dei monopoli sarebbe stata più agevole. C’è poi un capitolo aperto sui sistemi finanziari: ricordiamo ancora le ferite del crac Lehman nel 2008, il cui conto venne pagato soprattutto dall’Europa. Che cosa sta accadendo ora? Si stanno ridefinendo i requisiti di capitale stabiliti dagli accordi di Basilea, che dovranno avere le banche. Stati Uniti e Regno Unito si sono chiamati fuori da questi criteri, scenario che evidentemente comporta una concorrenza sleale. Bene, l’Europa potrebbe decidere tranquillamente di rallentare questo percorso proprio per evitare la concorrenza sleale delle banche americane.

C’è poi un altro aspetto strategico che potrebbe essere valutato, quello della potenza nucleare. Attualmente nel perimetro del vecchio continente l’unico Stato che detiene testate nucleari è la Francia (290) fuori dal perimetro c’è la Gran Bretagna (225) che ha partecipato all’ultimo vertice di Parigi. Che cosa potrebbe accadere negli equilibri mondiali se quella forza di deterrenza nucleare venisse considerata condivisa dall’intera Europa? Certo la Francia è un Paese che fa della grandeur un tratto distintivo ma in una situazione come questa sarebbe un segnale di grande importanza. Visto che tante volte vengono ricordate le parole del piano Marshall, che consentì nel secondo dopoguerra la rinascita dell’Europa, vale la pena andare a leggere qualche passaggio del discorso di Harvard del 5 giugno del 1947: «La verità è che, per i prossimi tre o quattro anni, i bisogni dell’Europa in materia di derrate alimentari e altri prodotti essenziali provenienti dall’estero — soprattutto dall’America — sono così superiori alla sua attuale capacità di pagamento che dovrà avere ulteriori e sostanziali aiuti, pena l’aggravamento della sua situazione economica, sociale e politica.

Il rimedio consiste nel rompere il circolo vizioso e nel ripristinare la fiducia degli europei nel futuro economico dei loro Paesi e dell’Europa tutta. Gli industriali e gli agricoltori debbono avere la possibilità e il desiderio di scambiare i loro prodotti con valuta il cui valore duraturo non sia in discussione». Certo il mondo multilaterale è in sofferenza e una figura come il segretario di Stato George Marshall oggi non verrebbe chiamata a far parte del governo di Washington, ma l’Europa non è un mondo di macerie. Forse serve una nuova forma di ricostruzione, prendere atto della situazione e agire di conseguenza. Non può, come ha avvertito Mario Draghi al Parlamento, restare prigioniera dei suoi no. Qualcosa va fatta, anche da soli.

21 febbraio 2025



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