L’inverno demografico svuota l’Italia di giovani

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L’Italia è caduta in un buco da cui sarà difficile uscire, una trappola demografica che sta lentamente, ma inesorabilmente, prosciugando il Paese delle sue energie più vitali: i giovani.  Dei giorni scorsi  è la notizia, riferita da Eurostat, che a inizio 2024 noi italiani siamo i più anziani dell’Unione Europea: se l’età media della popolazione dell’Ue ha raggiunto i 44,7 anni, con un aumento di 2,2 anni dal 2014, i già giovani sono gli irlandesi (con 39,4 anni in media), ma noi italiani segnamo il record, con 48,7 anni di età media. dell’Italia.
Ancora, nel 2023 per ogni 1.000 residenti sono nati poco più di sei bambini, un record negativo, con un calo del 3,4% sull’anno precedente, secondo il report Istat dello scorso ottobre. E nel 2024 il trend è confermato, dicono i dati provvisori di gennaio-luglio 2024.
La cosa ha conseguenze catastrofiche sul piano della sostenibilità economica del sistema previdenziale, visto che come ha detto la stessa premier Giorgia Meloni intervenendo al Congresso della Cisl in 20 anni abbiamo perso 2,2 milioni di lavoratori con meno di 35 anni di età, e sono invece raddoppiati i lavoratori over 50. “Banalmente – ha rimarcato Meloni – è un sistema che non siamo in grado di sostenere sulla lunga distanza”. Crolla la natalità, e invece esplode la fuga dei cervelli: negli ultimi due anni circa 100mila giovani hanno fatto le valigie per cercare fortuna all’estero, mentre solo 37mila sono tornati. Un’emorragia che non accenna a fermarsi e che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, colpisce soprattutto il Nord del Paese. E se si vuole esaminare le cose da un punto di vista oggettivo, non si può non ammettere che le politiche attualmente messe in campo dal governo di centrodestra non stanno dando i risultati attesi. Non sono in grado di rilanciare decisamente la natalità, non sono in grado di far tornare i giovani emigrati all’estero, non sono in grado di attirare giovani “nuovi italiani”, magari di origine straniera ma desiderosi di diventare compatrioti.

Giorgia Meloni Associated Press/LaPresse

L’emorragia dei giovani e la fuga dei cervelli

Prima si partirà dall’analisi dei numeri concreti e non dall’ideologia, e meglio sarà. Anche perché la situazione sta peggiorando rapidamente. Nei giorni scorsi uno studio della Fondazione Nord Est, diretta dall’economista Luca Paolazzi, ha rifatto i conti, calcolando che in tredici anni, dal 2011 al 2023, 550mila giovani tra i 18 e i 34 anni hanno lasciato l’Italia. Di questi, solo 172mila hanno fatto ritorno, con un saldo negativo di 377mila unità. Un capitale umano dal valore stimato in quasi 134 miliardi di euro – con la Lombardia in testa (22,8 miliardi) seguita da Sicilia (14,5) e Veneto (12,5) – che abbiamo “regalato” ad altri Paesi, più capaci di valorizzare e mettere a frutto “energia, valori, saperi, voglia di imparare e crescere dei nostri ragazzi”, come evidenzia il report della Fondazione. A lasciare l’Italia, sono soprattutto i giovani del Nord. I paesi più scelti sono Gran Bretagna, Germania, Svizzera, Francia, Spagna, Brasile, USA, Paesi Bassi, Belgio e Australia. Circa il 30% è senza diploma di scuola media superiore, un altro 30% è al più diplomato, e poco più del 40% è laureato. Una percentuale in crescita visto che fino al 2018 la loro quota era inferiore al 30%. L’emorragia dei giovani “colletti bianchi” è intensa nelle regioni settentrionali, con Lombardia e Veneto al vertice della classifica delle Regioni più colpite, dunque aree dove le occasioni di impiego in teoria sono molto migliori di quelle del Sud.

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Perché i giovani lasciano l’Italia? Salari e opportunità

Il primo fattore che spinge alla fuga è la questione retributiva: i giovani in Italia sono pagati molto meno. Ci sono però giovani che emigrano “per scelta”, provenienti da famiglie con uno status socioeconomico più elevato, che lasciano l’Italia per proseguire gli studi o per approfittare di opportunità lavorative all’estero. E quelli che emigrano diciamo per necessità, che vengono da contesti più svantaggiati. Per loro, le principali motivazioni sono il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, cioè meno burocrazia, maggiore inclusione sociale e rispetto per la diversità. In altre parole: se da noi un giovane è “pigro”, mammone, inesperto e deve fare gavetta a suon di sfruttamento, all’estero è visto come una risorsa da valorizzare fin dall’inizio. E come dice il rapporto, non ci sono misure adeguate a frenare il fenomeno. Ci sono agevolazioni fiscali per chi torna in Italia dall’estero, ma interessano la fascia “alta” e qualificata, e comunque non sono sufficienti a garantire condizioni favorevoli per il lavoro e la crescita professionale.
L’altra faccia della medaglia è la morsa tra invecchiamento della popolazione – grazie alla maggiore longevità – e riduzione drammatica della natalità. Da oltre 40 anni il numero medio di figli per donna, che dovrebbe essere intorno a 2 per garantire un adeguato ricambio generazionale, negli ultimi anni è a 1,2. Un dato che ci pone agli ultimi posti in Europa, dove Paesi come la Francia, grazie a politiche familiari di lungo corso, mantengono una media di 1,7 figli per donna. Al sempre crescente numero di persone più anziane bisogna garantire condizioni di cura e assistenza, ma se diminuisce sempre più il numero degli italiani in età attiva e potenziale forza lavoro, sono dolori, per il sistema pensionistico, per il welfare, ma anche per il sistema produttivo.

Le risposte politiche sono sufficienti?

Giorgia Meloni rivendica misure come l’estensione del congedo parentale e la decontribuzione per le mamme lavoratrici, vuole difendere in sede europea l’assegno unico, oggetto di procedura di infrazione perché legato al requisito di residenza. Intanto in Parlamento si confronterà sul tema la nuova commissione di inchiesta (approvata all’unanimità) sugli effetti della crisi demografica. Ma sembrano palliativi, misure inadeguate. Un grande esperto come Alessandro Rosina, ordinario di Demografia e Statistica sociale alla Cattolica di Milano, suggerisce un approccio sistemico: aumentare l’occupazione femminile (siamo molto sotto la media europea), migliorare le politiche di conciliazione vita-lavoro per le donne, potenziare i servizi per l’infanzia (la copertura dei nidi nella fascia 0-2 anni è al 30% contro il 50% della Francia), garantire salari adeguati e stabilità ai giovani e programmare meglio i flussi migratori per rispondere alle esigenze del mercato del lavoro.

Quali soluzioni per fermare il declino

Ma al momento manca una strategia organica. Come ricorda Gigi De Palo, presidente della Fondazione per la natalità, “il vero problema in Italia è che la nascita di un figlio è la seconda causa di povertà”. E finché non si risolverà questo paradosso, l’inverno demografico continuerà a congelare il futuro del Paese. Con conseguenze che si annunciano paradossali: secondo una ricerca su Veneto e Friuli Venezia Giulia del demografo Gianpiero Dalla Zuanna pubblicata su Neodemos, di qui al 2044 il crollo delle nascite avrà effetti drammatici. Senza fatti nuovi, i bimbi che vanno al nido caleranno da 99mila a 78mila, quelli dell’asilo da 128mila a 99mila, quelli delle scuole elementari da 247 a 174mila. I ragazzi delle scuole medie passeranno da 167mila a 108mila, quelli delle scuole secondarie da 293mila a 184mila. Va da sé che sarà inevitabile dover chiudere tantissimi plessi scolastici, specie elementari e scuole paritarie. Mandando a spasso il personale.
Il processo per invertire la tendenza, sempre che ci si riuscisse, è inevitabilmente molto lento. Anche per questo da tempo Bankitalia e altri osservatori si dicono convinti che la chiave di volta per risolvere la questione già da oggi sia rappresentata dall’arrivo di lavoratori stranieri. Che dovrebbero essere formati nei Paesi di provenienza, e meglio integrati nei nostri contesti. Tema delicatissimo, politicamente e socialmente; ma la matematica, a maggior ragione in questo caso, non è un’opinione.

Roberto GiovanniniGiornalista



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